Laboratorio Dipartimento Cibio ©UniTrento ph. Federico Nardelli

Ricerca

La ricerca contro la solitudine dei numeri primi

Vescicole extracellulari, terapie genomiche, diagnosi meno invasive. Le nuove frontiere degli studi sulle malattie rare

26 febbraio 2024
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Paola Siano
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

A volte hanno nomi impronunciabili. Parole che alla maggior parte delle persone possono suonare strane, misteriose. Lontane, perché poco conosciute. Alcune colpiscono anche un solo individuo ogni duemila. Altre un nome ancora non ce l’hanno. Sono malattie rare. Rare come il 29 febbraio. Ecco perché la scelta di dedicare questa giornata al tema (quando l’anno non è bisestile, la ricorrenza cade il 28 febbraio). Ma chi ha una patologia rara la vive 365 giorni l’anno. Anzi, anche 366.  Le cifre per l’Italia parlano di 2milioni di persone, nel 70% dei casi si tratta di pazienti in età pediatrica. In Trentino sono poco più di 5mila. A Trento, in occasione della XVII Giornata Internazionale delle Malattie Rare e della X Giornata Trentina delle Malattie Rare, si riunisce un tavolo di lavoro multidisciplinare organizzato dal Coordinamento trentino associazioni malattie rare in rete e patrocinato anche dall’Università di Trento. Si ritroveranno a Palazzo Consolati, sede del Cismed, professionisti ed esperti degli atenei di Trento e Verona e dell’Azienda sanitaria trentina, rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni di malattie rare in Trentino e del mondo del privato. Una giornata di confronto, organizzata in ottica di condivisione, per raccogliere spunti, bisogni e trovare possibili soluzioni alle necessità di pazienti e caregiver. Tra i relatori c’è Paolo Macchi, direttore del Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata – Cibio. Dipartimento che da anni si concentra sullo studio delle malattie rare. Lo abbiamo intervistato.

Direttore, cosa significa dedicarsi alla ricerca scientifica nell’ambito delle malattie rare?

«La ricerca scientifica, in generale, è guidata dalla curiosità di scoprire come funzionano le cose. Nel caso delle malattie rare le indagini si focalizzano soprattutto nell’identificare le cause, i fattori alterati, che portano a queste patologie e il motivo per cui queste alterazioni hanno una bassa incidenza sulla popolazione. La conoscenza è alla base della diagnosi e, si spera, della cura e della terapia di queste malattie. Non possiamo curare qualcosa che non conosciamo».  

Su cosa si concentrano gli studi al Dipartimento Cibio?

«Ci sono diversi gruppi che fanno ricerca preclinica su diverse malattie considerate rare. Per citarne alcune, alcuni ricercatori e ricercatrici lavorano sull’atassia di Friedreich, una malattia legata all’alterazione di un gene che determina un accumulo del ferro nelle cellule con gravi conseguenze soprattutto per il funzionamento del sistema nervoso. Sono in corso studi su malattie neurodegenerative e muscolari come la malattia di Huntington, la distrofia muscolare di Duchenne, la Sla - sindrome laterale amiotrofica. Studiamo poi la malattia di Lafora, la fibrosi cistica, malattie che coinvolgono la retina e malattie rare che colpiscono il sistema ematopoietico come le sindromi mielodisplastiche sia dell’adulto che dell’età pediatrica. Il panorama quindi è abbastanza ampio sottolineando l’interesse scientifico verso queste malattie. Ma c’è anche un interesse etico. Una malattia, indipendentemente dalla frequenza che ha nella popolazione, deve essere studiata per curarla».

È un lavoro multidisciplinare? Quali sono le competenze, le materie, e che si intrecciano?

«La biologia è molto cambiata anche solo rispetto a 10 anni fa. Oggi i biologi utilizzano tecnologie che sfruttano i progressi in altri settori scientifici. Siamo stati tra i primi a far crescere e sviluppare il nostro dipartimento insieme a piattaforme tecnologiche multidisciplinari, che richiedono competenze in diverse discipline, quali l’informatica, la fisica e la chimica. Queste tecnologie ci permettono di studiare non solo il singolo gene ma la cellula nel suo complesso, tutte le sue componenti molecolari e la sua fisiologia».

Prima parlava dell’aspetto etico della ricerca. Con quale atteggiamento si affrontano studi così importanti per tante persone che sono in attesa di una risposta sulla loro malattia e auspicabilmente di una cura?

«Con un grande senso di responsabilità. Sappiamo che i fondi che arrivano dalle associazioni del mondo delle malattie rare rappresentano una speranza di cura per le persone malate.  Siamo anche consapevoli che spesso le ricadute delle ricerche sulla salute delle persone malate sono a medio e lungo termine. Non vogliamo illudere nessuno con il miraggio di una cura in tempi rapidi. Questo è alla base del rapporto di fiducia, di dialogo e sostegno reciproci tra noi ricercatori, le associazioni e le famiglie».

Il Coordinamento trentino associazioni malattie rare in rete, in collaborazione con l’Ateneo trentino, ha promosso una campagna di raccolta fondi a favore del Dipartimento Cibio per sostenere la ricerca delle malattie rare. Come sta andando?

«La raccolta fondi sta andando bene. L’obiettivo è quello di acquistare strumenti per avviare e gestire una biobanca che raccoglierà campioni provenienti da pazienti dall’Italia e dall’estero che soffrono di una qualsiasi patologia, incluse quelle rare. Il progetto permetterà di studiare in particolare vescicole extra cellulari e le cellule staminali pluripotenti indotte, che rappresentano la nuova frontiera nell’ambito della diagnosi e della cura delle malattie. Serviranno per costruire dei modelli in vitro delle malattie e per analizzare gli effetti di potenziali farmaci e terapie».

Verso cosa è orientata la ricerca del futuro oggi? Quali sono le frontiere?

«La ricerca cosiddetta fondamentale si è arricchita di nuove tecnologie che aiutano a capire i meccanismi con cui le cellule funzionano. Grazie ad essa, oggi possiamo parlare di terapia a livello genomico: è la frontiera del “genome-editing”, cioè la possibilità di correggere gli errori nella sequenza del DNA che, mutati, causano una malattia. Un altro aspetto su cui ci si focalizza oggi è quello legato alla diagnostica che è sempre meno invasiva. Si è scoperto, ad esempio, che le cellule, anche quelle malate, rilasciano nel torrente circolatorio una parte del proprio contenuto, le cosiddette vescicole extra cellulari, contenenti proteine e acidi nucleici. Isolare queste vescicole, ad esempio con un semplice prelievo quindi una metodica poco invasiva, e capire le differenze nel loro contenuto è importante sia ai fini diagnostici sia per monitorare l’evoluzione di una terapia».