Tra le novità introdotte dalla riforma Cartabia del 2022 c’è la giustizia riparativa, un approccio al reato complementare al processo, basato sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altra parte con l’aiuto di una figura che si occupa della gestione del programma. Nasce dal basso, applicata già prima del suo riconoscimento normativo soprattutto nei procedimenti con persone minori. L’obiettivo è favorire l’incontro tra chi ha commesso il reato e la vittima per giungere a una forma di riparazione. Uno dei casi che ha suscitato più dibattito è stato il suo utilizzo nel femminicidio di Carol Maltesi. Ne parliamo con Elena Mattevi, ricercatrice di Diritto penale alla Facoltà di Giurisprudenza.
Professoressa Mattevi, in che modo la giustizia riparativa aiuta la vittima e l’autore – o il presunto autore – del reato?
«I programmi di giustizia riparativa si prendono cura di bisogni a cui il sistema tradizionale non riesce a rispondere. La vittima può comunicare con l’altra parte, anche solo esprimendo la sua sofferenza e descrivendo ciò che ha subito. Ci riferiamo a conseguenze spesso più profonde del mero danno economico. In questo contesto, la vittima può porgere domande come “perché?” o “perché a me?” e ricevere risposte dalla sola persona che può darle.
Dal lato di chi ha commesso il reato, invece, i programmi di giustizia riparativa lavorano sulla responsabilizzazione, favorita proprio dall’incontro con la sofferenza della vittima».
Si può accedere alla giustizia riparativa per tutti i tipi di reato?
«Sì, in teoria la riforma Cartabia ha consentito l’accesso ai programmi di giustizia riparativa per tutti i reati, in ogni fase e grado del procedimento penale. In concreto, però, la decisione spetta al giudice, che può ammetterla solo se – per esempio – non ci siano rischi per le parti. Queste devono poi esprimere il loro consenso al mediatore e il mediatore deve valutare comunque la fattibilità».
In quali circostanze viene applicata?
«La riforma è recente e solo parzialmente attuata, quindi non abbiamo un campione sufficientemente ampio che ci permetta di effettuare delle valutazioni attendibili. Per ora, grazie alle esperienze pregresse, la giustizia riparativa si è sviluppata soprattutto in ambito minorile, nella messa alla prova e per la competenza penale del giudice di pace. In Trentino, vi si è fatto ricorso soprattutto per i reati contro la persona e contro il patrimonio».
Quali figure professionali sono coinvolte?
«La riforma Cartabia ha disciplinato per la prima volta la figura professionale di chi si occupa di mediazione, il mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa. Ora, c’è un percorso formativo ad hoc, curato dai centri di giustizia riparativa e dalle università del territorio».
Non sono necessarie altre figure professionali, ad esempio per il supporto psicologico?
«Il percorso formativo per chi vuole occuparsi di mediazione comprende materie come la giustizia riparativa, il diritto penale, quello minorile e penitenziario, la procedura penale, la criminologia e la vittimologia; ma anche materie correlate come la psicologia del conflitto. Le competenze in ambito relazionale devono essere sviluppate con la formazione pratica. Un supporto psicologico serio potrebbe essere tuttavia offerto dai centri di assistenza alle vittime e sarebbe molto utile per favorire l’accesso della vittima al programma ed accompagnarla nel corso dello stesso».
Quali sono le criticità?
«Sono quelle legate alla sua natura, cioè all’accesso volontario. Devono crearsi le condizioni perché le persone vogliano intraprendere questo percorso. Se manca il consenso anche di una sola delle parti, rimane aperta la via della giustizia tradizionale, che comunque non cessa di operare, salvi i casi di reati procedibili a querela. Molto spesso, la vittima è la più diffidente».
La giustizia riparativa è stata applicata nel processo seguito al femminicidio di Carol Maltesi. Si tratta del primo esempio di applicazione in questa fattispecie di reato?
«Non è proprio così, c’è un pregresso di reati gravi affrontati anche con approcci riparativi, come testimonia “Il libro dell’incontro” che raccoglie le testimonianze di vittime e responsabili della lotta armata degli anni di piombo, coinvolti in programmi di giustizia riparativa. Possiamo però dire che il caso Maltesi è uno dei primi casi in cui la giustizia riparativa è stata usata dopo la riforma Cartabia per un reato così grave, come un omicidio».
E perché ha creato scandalo?
«Per due ragioni. La prima riguarda la motivazione del provvedimento del giudice, che ha acconsentito all’invio del caso al centro di giustizia riparativa senza il consenso delle vittime ma dando quasi per scontato che, in ipotesi di conferma del rifiuto delle vittime espresso davanti ai mediatori, si possa ricorrere alla “vittima aspecifica”, cioè alla vittima di un reato analogo ma diverso da quello per cui si procede. La riforma Cartabia prevede infatti questa possibilità ma è pur sempre il mediatore a dover valutare se sia opportuno il suo coinvolgimento e in quali casi, dopo aver contattato la vittima di quel reato e aver concluso gli incontri preliminari
La seconda ragione riguarda la difficoltà che ogni argomento complesso incontra quando viene affrontato in un dibattito pubblico. Nel caso Maltesi, ad esempio, non è stato chiarito a sufficienza che – parallelamente alla giustizia riparativa – sarebbe andato avanti anche il procedimento penale. In un caso di omicidio, la giustizia riparativa con esito positivo può portare tutt’al più al riconoscimento di un’attenuante o ad agevolare l’accesso alle misure alternative. Dobbiamo comunque ricordare che la stessa attenuante può essere riconosciuta con il risarcimento del danno, ma in caso di esito riparativo ci troviamo davanti a molto di più: addirittura ad un accordo che ha soddisfatto entrambe le parti».