È una pesca con delle lenze speciali quella che spinge nel mare aperto delle demenze un equipaggio dell’Università di Trento. La ricerca di neurospie, facili da rilevare e utili per differenziare le cause della malattia e arrivare a una diagnosi precoce, rappresenta una delle sfide più importanti per il settore. A gonfiare le vele del peschereccio ci sono l’impegno quotidiano per lo studio, milioni di neuroni cresciuti nelle colture cellulari, le risorse per le spese di laboratorio arrivate dalla campagna 5 per mille di Ateneo del 2022 e anche donazioni in memoria di chi non c'è più, ma continua a vivere nello studio delle malattie e di nuove cure.
La passione per la ricerca scientifica di Ilaria Brentari parte da lontano. Racconta che da bambina era attratta dalla medicina legale. Poi, anche vedere la nonna che non la riconosceva più, l’ha fatta orientare verso lo studio della cura delle malattie e il mondo delle scienze biomolecolari. Terminato il dottorato, Ilaria Brentari è rimasta al Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata (Cibio) dove attualmente lavora come postdoc. «È meraviglioso insegnare e trasmettere a chi è più giovane di me la nostra attività ricerca. Qui al Dipartimento c’è un ambiente stimolante, che aiuta molto a crescere e a dare il meglio di sé», commenta.
Durante i tre anni del dottorato di ricerca ha messo a punto un modello neuronale di cellule umane staminali. «Si è cresciuta e coccolata milioni di neuroni», racconta Michela Denti, responsabile del laboratorio di biologia e biotecnologia dell’RNA del Dipartimento Cibio e sua supervisor.
Le colture cellulari – spiegano Michela Denti e Ilaria Brentari (nella foto) – permettono di confrontare le cellule umane sane con quelle malate, per identificare i biomarcatori, che sono neurospie delle malattie fin dagli stadi iniziali, segnali rilasciati dalle cellule neuronali sofferenti.
Il laboratorio di Michela Denti è stato tra quelli a cui sono state accordate le risorse della campagna 5 per mille di UniTrento del 2022, che qui sono state utilizzate per l’acquisto delle proteine e degli altri materiali necessari per nutrire le cellule. Inoltre, era risultato vincitore di un finanziamento della Fondazione per la Valorizzazione della Ricerca trentina per lavorare al progetto dei biomarcatori. Poi c’è la linfa continua delle donazioni, come quella intitolata al signor Giordano Ossanna, che tengono vivo il ricordo di chi non c’è più nel dare un sostegno alla ricerca e al progresso scientifico per rendere le malattie sempre più curabili.
Il problema dei finanziamenti è una questione annosa così come la precarietà dei contratti. «L’instabilità e l’incertezza rendono sempre più difficile reclutare e trattenere giovani nei nostri laboratori di ricerca», afferma Denti.
La comunità scientifica, nonostante tutto, prosegue con passo deciso i propri studi di frontiera, come quello sui biomarcatori per le demenze.
«L’obiezione che viene mossa – riferisce Denti – è che sia inutile investire nella diagnosi di malattie per le quali non sono al momento disponibile cure. Ma rispondo che le diagnosi servono per migliorare le cure e che, fino a quando non ci sono diagnosi precise, la ricerca farmacologica non inizia».
Quando si parla di demenza, di solito, si pensa alla malattia di Alzheimer, a lunga latenza, che rappresenta la tipologia più comune tra le persone anziane e mette a dura prova il sistema sanitario e sociale. Ma ci sono anche altre demenze, come la demenza frontotemporale, che colpisce persone di età più giovane, con molte varianti e che risulta difficile da diagnosticare.
La strada per migliorare le rispettive diagnosi passa dallo studio di biomarcatori molecolari facili da rilevare. Denti spiega: «Finora si è privilegiata la ricerca dei biomarcatori delle cellule neuronali sofferenti attraverso il prelevamento del liquido cefalorachidiano, che è il fluido che si trova nel sistema nervoso centrale. Questo esame, però, è doloroso e non è privo di rischi. Il nostro tentativo è proporre un esame meno invasivo come quello del sangue. Il problema è che nel sangue ci sono tante molecole che derivano da molte cellule diverse, che compongono l’intero organismo. La scommessa è, quindi, andare a individuare nel sangue le particelle che vengono dal cervello. E come facciamo? Con una spedizione di pesca attraverso delle lenze particolari (anticorpi) che ci permettono di riconoscere proteine che solo le vescicole che derivano dai neuroni hanno sulla superficie. E dentro a queste vescicole misuriamo i microRNA che derivano dal cervello».
A dare conto della modalità di pesca del Dipartimento Cibio ci sono vari articoli, come quello uscito nel maggio del 2023 su “Frontiers in Molecular Neuroscience” e quello pubblicato in queste settimane da “Molecular Neurobiology”, che rappresenta una seconda fase del lavoro.
L'articolo più recente, che vede Michela Denti e Ilaria Brentari tra le autrici, descrive la nuova tappa raggiunta nell'ambito di una collaborazione tra realtà italiane e internazionali della ricerca e della clinica, a cominciare dall’Istituto superiore di sanità di Roma, a cui appartengono la prima (Valeria Manzini) e l’ultima firmataria (Paola Piscopo).
«Nonostante gli sforzi per identificare biomarcatori circolanti per migliorare la diagnosi di demenza frontotemporale, negli ultimi anni sono stati individuati solo poche candidate tra le piccole molecole di RNA non codificante a singolo filamento (microRNA). Il primo studio si era concentrato su tre di esse. In questo abbiamo approfondito la loro diversa espressione nelle persone con demenza frontotemporale rispetto a un gruppo di controllo di soggetti sani e a pazienti con malattia di Alzheimer. Dai cambiamenti osservati nelle vescicole extracellulari neuronali si suggerisce di proporre due miRNA (miR-92a e miR-320a) come biomarcatori di demenza frontotemporale ovvero come neurospie per favorire una diagnosi sempre più precisa e precoce», concludono le autrici in attesa di ulteriori ricerche e riscontri.