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Quando il lavoro diventa patologia

Un’analisi di cosa succede se cadono i confini tra vita personale e professionale. E di come proteggersi

8 ottobre 2024
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Clarissa D’Alberto
Ufficio Job Guidance

Nel periodo autunnale, in cui entrano nel vivo le varie attività, abbiamo deciso di occuparci  della dipendenza da lavoro (workaholism). Per questo abbiamo intervistato Tiziana Faitini, ricercatrice al Dipartimento di Lettere e Filosofia. I suoi studi intrecciano filosofia, politica ed etica, con una particolare attenzione al tema del lavoro. Con lei abbiamo approfondito questo fenomeno patologico e i comportamenti per proteggersi da questo rischio.

Dottoressa Faitini, che cosa è il workaholism e perché si sta parlando sempre di più di questo fenomeno?

«È una dipendenza dal lavoro, qualcuno la chiama anche "ergomania". È l’idea che il lavoro - da cui si traggono fonti di sostentamento – diventa il baricentro della propria esistenza. Chi è 'affetto' da questa mania svolge e impegna una buona parte del suo tempo ed energie mentali in modo compulsivo rispetto all’occupazione lavorativa».

Un termine che lei accosta al workaholism è il workism. Cosa intende e qual è la differenza tra questi due elementi?

«Qualcuno definisce il workaholism come una patologia. Tuttavia tendiamo a parlare di workism o ”lavorismo” perché ciò che rileviamo nelle nostre società è che il lavoro è molto più del lavoro: quando parliamo del lavoro, nel linguaggio comune parliamo di un posto di lavoro che ci permette di sostenerci, tuttavia a questo posto di lavoro è associato un sovrainvestimento in termini di realizzazione personale, autostima, riconoscimento sociale ed esercizio di diritti politici e sociali. La nostra è una società lavorista perché ha al proprio cuore il lavoro: il caso italiano è emblematico perché la nostra è una repubblica fondata sul lavoro, e questo è un impegno bellissimo, ma forse è anche una inclinazione particolare verso questo fenomeno e verso la tendenza a sminuire tutto ciò che lavoro non è, con il risultato che chi non può lavorare, magari perché impegnata in attività di cura, si ritrova un po’ ai margini. C’è un’importante questione di gender gap che si annida qui, oltre che di esclusione e marginalizzazione di chi non può lavorare per disabilità o ragioni legate a un permesso di soggiorno».

Il lavoro ha sempre fatto parte dell’umanità, ma il termine "workaholism" è di recente utilizzo. Quando nasce esattamente questo fenomeno?

«Quello del workism è fenomeno relativamente recente, che si afferma via via a partire dalla rivoluzione industriale. Se guardiamo alle epoche precedenti, come quella medioevale, si lavorava molto meno di quanto non si faccia oggi e si attribuiva al lavoro un’importanza più limitata. La definizione e categorizzazione di workaholism come patologia invece è degli ultimi decenni, con una accelerazione successiva alla pandemia, e ci racconta qualcosa del nostro tempo e del nostro modo di concepirci».

Ci sono delle aree geografiche dove questo si sviluppa in modo particolare? L’Italia a questo proposito come si colloca?

«Qualche specificità geografica c’è: è un fenomeno molto occidentale, europeo e nordamericano.
Ci sono delle indagini del Pew Research Center del 2021 (centro studi statunitense che fornisce informazioni su problemi sociali, opinione pubblica, andamenti demografici) da cui emerge che l’Italia spicca in modo particolare in quanto unico dei 17 paesi a economia avanzata in cui il lavoro è al primo posto tra le fonti di senso per le persone al di sopra dei 18 anni. Vi è addirittura un picco del 59% per le fasce di età tra i 30 e i 49 anni, quando negli altri paesi questo è di norma al di sotto del 30%. Questo spiega anche come mai le proposte di reddito di cittadinanza in Italia siano spesso percepite negativamente».

Quali sono i fattori di rischio a cui prestare attenzione?

«La cancellazione dei confini tra spazi e tempi di vita e di lavoro. La possibilità di lavoro da remoto è molto positiva e apre a prospettive di riorganizzazione in modo autonomo del proprio lavoro ma si presta al rischio di una confusione e sovrapposizione tra spazio domestico e personale e quello professionale.
Anche la sovrapposizione tra tempo di vita e di lavoro spesso è un fattore di rischio: occorre tenere in considerazione la necessità di tutti i lavoratori/lavoratrici di non essere sempre disponibili garantendo il loro diritto alla disconnessione».

Quali consigli desidera dare alla comunità dell’Università di Trento?

«Come dicevamo occorre innanzitutto porre un limite nella gestione dei tempi e creare una distinzione degli spazi di lavoro. Uno dei problemi più frequenti è il disturbo del sonno, quindi è importante non lavorare fino a tardi e non rispondere alle mail di lavoro nello spazio della stanza da letto o nel letto stesso in quanto questo disturba il sonno e inclina alla dipendenza patologica dalla propria connessione.
I docenti universitari sono maggiormente esposti a questo rischio per il tipo di lavoro che svolgono, che spesso è per loro una vera passione. Dal momento però che non c’è poi tanta differenza tra le attività che categorizziamo come lavoro retribuito e le altre attività, c’è un coinvolgimento anche di studenti e studentesse. A loro suggerisco di acquisire consapevolezza sin da ora rispetto alla distinzione tra tempi e spazi di vita e di lavoro/studio: questa organizzazione si può esercitare già mentre si studia ed è importante per lo sviluppo di difese rispetto alle richieste professionali che vengono spesso fatte ai/alle giovani nel momento del loro ingresso nel mondo del lavoro».