Non solo gatti. Anche ratti, rettili e insetti. Un gruppo di ricercatori e ricercatrici del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive dell’Università di Trento, dell’Università di La Laguna (Tenerife) e dell’Università europea delle Isole Canarie ha accertato che chi ha la fobia pe tutte queste categorie di animali presenta un cervello ansioso. Questa connessione in prospettiva potrebbe essere utile per individuare con più precisione disturbi psicologici e progettare trattamenti mirati. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Psychophysiology. Il responsabile dello studio è Alessandro Grecucci, professore di Neuroscienze cliniche e affettive al Dipsco e al Centro interdipartimentale di Scienze mediche (Cismed).
L’aspetto innovativo di questo lavoro consiste nell’impiego di modelli basati sull’apprendimento automatico (machine learning) per predire se una persona è fobica oppure no. «Quello che abbiamo fatto – spiega Grecucci – è estrarre un modello neuro-predittivo dell’avere fobie in base a determinate caratteristiche cerebrali. Abbiamo visto infatti che da caratteristiche morfometriche cerebrali è possibile fare queste predizioni. Questo sistema predice con una buona accuratezza individui di cui non si conosce lo stato psicologico». Il lavoro ha visto coinvolte 32 persone con una diagnosi di fobia per i piccoli animali e altre 90 senza questa problematica. A loro sono stati mostrati filmati che rappresentavano esemplari di gatti, topi, serpenti, ragni (solo per fare qualche esempio) e video invece neutri, senza alcun contenuto “spaventoso”. Sono state poi registrate le risposte cerebrali. Dalle risonanze magnetiche effettuate sui soggetti partecipanti è stato quindi riscontrato che alcune zone strutturali del cervello rispondevano in un determinato modo agli stimoli che ricevevano. In questo primo lavoro l’obiettivo è stato quello di capire le basi cerebrali dei disturbi ansiosi della personalità e l'interazione con le fobie. «Se troviamo il circuito cerebrale che predice la patologia – prosegue il docente – vuol dire anche che questo contiene un'alterazione associata a quel tipo di disfunzione. Questo circuito interessa la corteccia orbito-frontale, il polo temporale, la amigdala e la corteccia cingolata». Nei casi di fobia quindi, queste strutture presentano specifiche alterazioni dalle quali si può prevedere se un individuo è fobico o meno.
Nello studio è stato utilizzato un algoritmo (Support Vector Machine) che ha permesso di raggiungere un’accuratezza dell’80 per cento. Una percentuale alta, se si considera per esempio che per diagnosticare la depressione il massimo che si riesce ad ottenere è inferiore al 70 per cento. Questo algoritmo, secondo chi ha condotto lo studio, potrebbe portare a diagnosi tempestive e più accurate rispetto a quelle attualmente condotte con interviste cliniche e capire se il cervello appartiene a un paziente fobico oppure ossessivo, prima che sviluppi problematiche già esplicite. Questo permetterebbe di intervenire tempestivamente con trattamenti di neuro stimolazione localizzati e precisi che possano influenzare l’attività di questo circuito. Da un punto di vista di ricerca di base, questo lavoro offre una comprensione più puntuale delle basi cerebrali della fobia e delle personalità ansiose. «In futuro – è l’auspicio di Grecucci – potremo utilizzare dei biomarcatori diagnostici anche in psichiatria o in psicologia, utilizzando la scansione cerebrale. Tali marcatori ci permetteranno un giorno di avere diagnosi più accurate, tempestive e basate su indici obiettivi». «Il lavoro è frutto di una collaborazione con l’Università di La Laguna nata oltre un anno fa – aggiunge il docente – e rappresenta un pezzetto di un puzzle più ampio che si completerà nei prossimi anni sempre sul legame tra comportamenti fobici e stati d’ansia».
L’articolo “The phobic brain: Morphometric features correctly classify individuals with small animal phobia” è firmato da Alessandro Scarano (Università di Trento), Ascensión Fumero (Universidad de La Laguna), Teresa Baggio (Università di Trento), Francisco Rivero (Universidad Europea de Canarias), Rosario J. Marrero (Universidad de La Laguna), Teresa Olivares (Universidad de La Laguna), Wenceslao Peñate (Universidad de La Laguna), Yolanda Álvarez-Pérez (Fundación Canaria Instituto de Investigación Sanitaria de Canarias), Juan Manuel Bethencourt (Universidad de La Laguna), Alessandro Grecucci (Università di Trento). Lo studio è disponibile a questo link: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/psyp.14716