Nato con le migliori intenzioni, prima nei paesi del Nord Europa e solo dopo anche in Italia, per favorire la partecipazione femminile al mondo del lavoro, negli anni il part-time ha dimostrato alcune criticità e contraddizioni. E a rimetterci sono, paradossalmente, proprio le donne. La conferma arriva dal rapporto “Il lavoro part-time: analisi e implicazioni” commissionato dall'Agenzia per la coesione sociale della provincia di Trento recentemente pubblicato. Le autrici sono Barbara Poggio, professoressa di Sociologia dei processi economici e lavoro al Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento, e Sandra Burchi, ricercatrice al Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell'Università di Pisa. Il rapporto è scaricabile a questo link.
Lo studio, che propone una rassegna della letteratura scientifica e del dibattito degli ultimi vent’anni relativo all’utilizzo del part-time come strumento di flessibilità e di conciliazione lavorativa, apre una riflessione sull’efficacia del lavoro a orario ridotto come supporto per il bilanciamento vita-lavoro per uomini e donne. L’analisi si concentra in particolare sulla sua diffusione nel settore pubblico sia a livello nazionale che nel contesto trentino. E si sofferma sulle implicazioni per i percorsi lavorativi, lo sviluppo professionale e anche le condizioni previdenziali di chi ha un’occupazione a tempo parziale.
«Per lungo tempo il part-time è stato considerato come l’unica risposta possibile alle necessità di conciliazione. Ma in realtà non sempre questa è la soluzione migliore, come confermano i dati di questo rapporto», esordisce Barbara Poggio. Il lavoro ripercorre gli sviluppi normativi della materia e la distribuzione di questo tipo di contrattazione a livello italiano.
Interessante il dato che vede il Trentino, insieme all'Alto Adige, tra i territori dove si registra un più alto utilizzo di part time. Questo perché la nostra provincia è più virtuosa a domanda in termini di conciliazione o c'è dell'altro? La risposta possiamo intuirla nel titolo di uno dei capitoli del rapporto: “Il part-time, mezzo lavoro e mezzo reddito”. Questa modalità lavorativa inizialmente è nata per incentivare l'occupazione femminile contestualmente allo sviluppo del settore terziario.
Però i dati raccontano anche che, a parità di donne impiegate, esistono tre fenomeni principali che aprono una serie di interrogativi: la segregazione occupazionale, il divario salariale e quello previdenziale.
Partiamo dal primo. Il part-time non si distribuisce in modo omogeneo in tutti gli ambiti lavorativi ed è spesso più presente in settori del terziario, dalla grande distribuzione ai lavori di cura, a bassa qualificazione. Ed è di solito associato a posizioni lavorative medio-basse: difficile trovarlo in ruoli apicali e di responsabilità. «La possibilità di lavorare meno ore al giorno, magari per conciliare l’attività lavorativa con i carichi familiari – spiega la professoressa Poggio – ha dei costi rilevanti in termini di minori opportunità di sviluppo professionale. Di fatto, attraverso questo strumento, si consente alle donne di fare le funambole tra il lavoro e la famiglia, senza mettere in discussione i modelli di divisione dei ruoli di genere sottostanti, che attribuiscono principalmente alle donne la responsabilità dei carichi di cura nelle famiglie». A richiedere il part-time infatti sono soprattutto le donne. Gli uomini sono una percentuale molto più bassa. E quando lo chiedono è più spesso per poter svolgere un secondo lavoro.
Il secondo e il terzo fenomeno sono intrinsecamente collegati. «Il divario salariale fa riferimento agli squilibri esistenti tra le retribuzioni maschili e quelle femminili, con le seconde mediamente più basse. Questo si traduce in un gap previdenziale. È evidente che chi lavora meno ore ha contributi versati minori e quindi alla fine del percorso lavorativo si ritrova con una pensione più bassa. Su questi aspetti – riflette la docente – non c'è abbastanza consapevolezza». E qui torna la situazione a noi più vicina, quella locale. «Il Trentino è uno dei territori che presentano divari previdenziali più elevati, così come anche quelli salariali, proprio perché abbiamo un elevatissimo tasso di part-time», sottolinea la studiosa. Di virtuoso, lo documenta lo studio, c’è ben poco. Ma non è tutto. Lavorare meno ore a settimana non sempre è una scelta.
Un altro tema emergente infatti è quello del part-time involontario. Anche in Trentino. «Sempre più spesso sono le aziende a imporre questa modalità oraria. Soprattutto nel settore del commercio o dei servizi di cura si chiede alle persone di lavorare quando sono previsti i picchi di attività, magari nel pomeriggio o nei fine settimana. In una collocazione che quindi non coincide neanche con ciò che sarebbe interessante per la conciliazione. Questo è paradossale», sottolinea Poggio.
Ad aggravare la situazione, è intervenuto anche il Covid. Un dato su tutti: nel primo anno di pandemia su 100 mila persone che hanno perso il lavoro, 99 mila erano donne. Non si è trattato di licenziamenti, ma per lo più di mancati rinnovi di contratti precari. Oppure loro stesse hanno rinunciato, per la difficoltà di far quadrare il lavoro con la cura dei figli e dei propri cari.
Cosa servirebbe davvero per agevolare la partecipazione delle donne al mondo del lavoro, visto che emerge questo divario? Ridurre il part-time femminile dovrebbe essere una priorità? «Il part-time può essere uno strumento utile in alcuni momenti della vita lavorativa, ma non può essere l’unica soluzione, né la principale. E, come abbiamo visto, può portare con sé molte criticità. Il fenomeno degli squilibri di genere nel mercato del lavoro è un fenomeno estremamente complesso. Non ci sono soluzioni uniche – risponde Barbara Poggio che però aggiunge – quello che serve è creare una serie di strumenti che abbiano un impatto sulle scelte individuali, sulle culture organizzative, sulle politiche pubbliche, sulle normative. Introdurre anche delle forzature come possono essere le quote di genere, che spingano un sistema che fa fatica a cambiare da solo. Più di tutto però – conclude la docente – è necessario creare una cultura di parità, partendo il prima possibile, quindi dalle scuole». Non solo per incoraggiare nelle scelte lavorative, ma anche per evitare che si riproducano modelli sociali che disegnano i ruoli (e i destini) di uomini e donne in base al loro genere.