Le modalità di apprendimento dipenderebbero dal contenuto più che da differenze individuali. L’impatto delle tecnologie? Il sistema cognitivo, frutto dell’evoluzione, è capace di modificare le strategie in base agli strumenti disponibili. Sono alcune delle considerazioni di Barbara Treccani. Professoressa di Psicologia generale all’Università di Trento, è titolare degli insegnamenti in Psicologia della memoria e dell'apprendimento e di Ergonomia cognitiva, in cui applica i principi della psicologia cognitiva e sperimentale allo studio dell'interazione tra esseri umani e sistemi artificiali.
Professoressa Treccani, da cosa dipende l’efficacia di uno stile di apprendimento?
«Secondo l'ipotesi degli stili di apprendimento, ogni persona ha una modalità preferita per elaborare le informazioni (ad esempio, visiva, uditiva o cinestesica) e l'apprendimento risulta più efficace se le informazioni vengono presentate in quella modalità. Questi diversi stili dipenderebbero dalle specificità del sistema cognitivo, non sarebbero modificabili e andrebbero assecondati. Non esistono, però, prove che adattare l'insegnamento allo stile di apprendimento dichiarato migliori la capacità di apprendimento. L’efficacia di una strategia dipende più dal contenuto, cioè da ciò che deve essere appreso e dallo scopo di questo apprendimento».
Ci può fare un esempio?
«Per memorizzare una lista di parole, concentrarsi sul loro significato e cercare di visualizzare ciò a cui si riferiscono (creando immagini mentali corrispondenti) porterà a un apprendimento migliore rispetto al concentrarsi sui suoni delle parole. Ciò avviene indipendentemente dallo "stile" di apprendimento: anche coloro che si dichiarano "uditivi", ad esempio, apprenderanno meglio se si aiuteranno con la visualizzazione. In compiti come questo, utilizzare una doppia codifica (sia verbale che visiva) è una strategia efficace per la memorizzazione.
Le persone, però, non sono in generale interessate a memorizzare lunghe liste di parole inutili, ma a ottenere "apprendimenti significativi", informazioni che hanno senso e rilevanza per chi apprende (come un argomento che potrebbe essere oggetto di una verifica a scuola) e permettono di usare le conoscenze acquisite in altri contesti. Diversi studiosi (anche del nostro Ateneo) fanno ricerca su questi apprendimenti con lo scopo di individuare i metodi e le tecniche più adatte a seconda di obiettivi e contenuti dell’apprendimento. Strategie come la pratica distribuita (distribuire lo studio nel tempo) e la pratica del recupero (fare esercizio nel richiamare alla mente le informazioni apprese) si sono rivelate efficaci in numerosi ambiti disciplinari e con studenti di diverse età».
La grande mole di dati che caratterizza il nostro tempo pone una sfida nuova?
«Oggi ci sono molteplici fonti di informazione, ma credo che, come in passato, le persone tendano a preferire specifici canali e tipi di dati e a orientarsi verso di essi. Però sarebbe fondamentale fornire loro gli strumenti per fare scelte consapevoli quando selezionano queste fonti».
Negli ultimi 40 anni si osservano cambiamenti nel modo di lavorare del nostro cervello?
«Il nostro sistema cognitivo, o meglio, le potenzialità che esso ha di svilupparsi dall'infanzia all'età adulta attraverso l'interazione con l'ambiente, sono frutto di migliaia di anni di evoluzione. Il processo evolutivo ha dato origine a un sistema flessibile e adattabile, capace di utilizzare gli strumenti disponibili e di modificare le strategie di risoluzione dei problemi in base a questi strumenti. Le cosiddette nuove tecnologie non sono che nuovi strumenti a disposizione e il nostro sistema cognitivo si adatta a esse così come, in passato, si è adattato ad altre tecnologie, come la scrittura. Le strategie possono cambiare a seconda degli strumenti, ma i meccanismi cognitivi che ci permettono di adattarle rimangono gli stessi. Inoltre, è il nostro sistema cognitivo ad aver ideato questi strumenti. Di conseguenza, essi non possono che essere coerenti con le caratteristiche del sistema. Non sono cambiati in modo sostanziale gli sforzi richiesti al nostro sistema cognitivo. Per esempio, tempo fa, quando i telefoni erano privi di memoria, era utile memorizzare i numeri telefonici. Oggi dobbiamo memorizzare altre informazioni, come le password».
Quindi non si riduce il lavoro del nostro cervello?
«Siamo portati a pensare che, quando una tecnologia ci solleva da certe operazioni mentali, impegno cognitivo e attività intellettive si riducano. Si sente dire, ad esempio, che i ragazzi di oggi, con tutti questi aiuti (Google, ChatGpt, ecc.), pensino meno e usino meno la testa. Questa visione - l’idea che la tecnologia ‘atrofizzi’ la mente - dimentica che il nostro sistema cognitivo è curioso: rifugge la noia e ama esplorare ed elaborare nuove informazioni. A tal proposito, mi viene in mente lo studio di un collega che ha confrontato lo sforzo cognitivo di persone alla guida di mezzi di trasporto tradizionali con quello di chi utilizzava veicoli a guida autonoma. I dati hanno mostrato che non c'erano differenze significative: chi viaggiava su un mezzo autonomo non si ‘spegneva’, non riduceva il suo impegno intellettivo, ma riempiva il vuoto lasciato dalla guida con altre attività cognitive, come fanno i passeggeri che chiacchierano, riflettono, pianificano, consultano il telefono, leggono, supervisionano e danno consigli a chi guida. Se le tecnologie ci solleveranno da certi compiti, troveremo altri modi per impiegare le risorse cognitive. Continueremo ad adattarci agli strumenti a disposizione e alle richieste dell’ambiente».
È cambiato il modo di imparare a leggere e a scrivere?
«Dal punto di vista psicologico, non ci sono evidenze che suggeriscano cambiamenti significativi. Un esperto nell'ambito dell'educazione (educatore, pedagogista, insegnante) potrebbe offrire una visione differente, considerando le modifiche culturali e valoriali avvenute nei contesti familiari. Tuttavia, non ci sono ragioni per pensare che i meccanismi di apprendimento del linguaggio scritto siano cambiati. Anche l'insegnamento della lettura e della scrittura non è cambiato».
C’è chi afferma che scrivere a mano stimoli lo sviluppo cognitivo.
«Non ci sono affatto evidenze scientifiche in questo senso. In alcuni studi si è visto che scrivere a mano attiva aree cerebrali diverse rispetto, ad esempio, a scrivere su una tastiera, ma questo non ci dice nulla sull'impatto sul funzionamento cognitivo. In altri studi si è visto che scrivere parole su un foglio di carta impegna le nostre funzioni cognitive in modo diverso rispetto ad esempio a osservare parole già scritte su uno schermo, ma anche questo non ci dice nulla sugli effetti della scrittura a mano sullo sviluppo cognitivo. Imparare a scrivere su una tastiera più precocemente non credo avrà conseguenze significative sul funzionamento cognitivo dei bambini. Ma se queste conseguenze ci saranno o meno è una questione empirica. Staremo a vedere».
Per approfondimenti:
Laboratorio di tecniche di analisi e modifica del comportamento (TeAMLab), gruppo di ricerca che si occupa di queste tematiche.