Il 10 aprile 2019 una notizia scientifica fece il giro del mondo, non solo attraverso i canali tradizionali, ma anche attraverso un’enorme diffusione sui social media. Era l’immagine del buco nero al centro della galassia M87 catturata dall'Event Horizon Telescope (EHT), la prima prova visiva dell’esistenza dei buchi neri, che conferma la teoria della relatività di Einstein. Milioni di condivisioni, commenti e discussioni. L’immagine divenne virale ispirando illustrazioni, magliette, meme e persino tatuaggi. Un caso emblematico di come una scoperta scientifica possa diffondersi rapidamente sui social media, influenzando la percezione della scienza e stimolando un ampio coinvolgimento pubblico. Della scienza che esce dai laboratori e dai canali tradizionali di divulgazione e utilizza nuovi spazi caotici e iperconnessi come i social media abbiamo parlato con il sociologo Massimiano Bucchi, che insegna Scienza, Tecnologia e Società all’Università di Trento.
I mezzi di comunicazione sono cambiati e stiamo assistendo a una crescita esponenziale dell’utilizzo di nuovi strumenti di informazione, ma questo non significa che l’informazione sia peggiore o che il pubblico creda a tutto quello che vede. I social media hanno contribuito a rendere la comunicazione scientifica più accessibile e inclusiva. La relazione tra scienza e pubblico è diventata bidirezionale, con un dialogo continuo tra scienziati e pubblico. Seppur sia complesso capire se i contenuti social spingano all’approfondimento di contenuti scientifici, possiamo però dire che esiste una continuità tra la vita online e offline e che una corretta comunicazione social di tematiche scientifiche può instillare curiosità in chi ne fruisce. Professor Bucchi, ma i social hanno facilitato l'accesso alla conoscenza scientifica o hanno invece amplificato la disinformazione? «La disinformazione è sovrastimata, e a volte è utilizzata per coprire fallimenti istituzionali. I dati ci dicono il contrario: c’è molta disinformazione sulla disinformazione (Misinformation on Misinformation: Conceptual and Methodological Challenges). La qualità dell’informazione prescinde dal mezzo di comunicazione utilizzato: possiamo trovare informazione di bassa qualità anche sui media tradizionali, come stampa o tv».
Se i social avessero davvero aumentato la disinformazione, ci dovremmo aspettare un pubblico sempre meno informato sulle questioni scientifiche. Eppure, i dati dell’Osservatorio Scienza, Tecnologia e Società del 2024 raccontano una storia diversa. Oggi, di fronte a cinque domande di carattere scientifico, quasi una persona su due (42,6% di chi è stato intervistato) sa rispondere correttamente. Inoltre, almeno un/a italiano/a su tre legge una notizia scientifica ogni settimana, segno che la curiosità per la scienza è tutt’altro che in declino. Riguardo ai social media: nel 2015, solo l’11,4% di persone intervistate seguiva una o uno scienziato online; nel 2024, questa percentuale è quasi quadruplicata, arrivando al 42,6%.
La scienza non è più confinata nei laboratori o nelle aule universitarie, ma si muove liberamente nello spazio digitale, accessibile a chiunque. E, dai dati dell’Osservatorio, emerge che l’interesse per la scienza è eterogeneo e non dipende dall’età, dal genere o dal titolo di studio. Tutte e tutti possono accedere a informazioni di scienza, sfatando il mito di un pubblico sempre più disinformato. Come evidenzia Bucchi: «Dal punto di vista del pubblico, i media digitali forniscono degli strumenti e delle opportunità incredibili, che prima non avevamo. Possiamo assistere da casa alla conferenza di un premio Nobel, o guardare un video di genome editing mentre ci spostiamo in treno. Per chi produce contenuti, i social permettono di creare rapidamente materiali di comunicazione di elevata qualità tecnica e di facile diffusione. Naturalmente stiamo parlando di opportunità offerte da questi mezzi, non di accuratezza, che naturalmente dovrebbe accompagnare i contenuti».
In realtà, il dibattito sulla qualità dell’informazione non riguarda solo il mezzo attraverso cui viene diffusa, ma piuttosto il modo in cui le persone le attribuiscono valore.
«Il problema è strutturale: il modello attuale dell’informazione non è più sostenibile. Sempre meno persone sono disposte a pagare per notizie e approfondimenti, limitandosi spesso a leggere solo i titoli, senza approfondire. Al di là della radiotelevisione pubblica, è difficile vedere come l’informazione possa stare in piedi economicamente e dal punto di vista della qualità. Viviamo in un’epoca paradossale, in cui abbiamo accesso a un’enorme quantità di informazione, ma fatichiamo a riconoscerne il valore», commenta Bucchi.
La sfida non è combattere i social media, ma utilizzarli nel modo corretto. Invece di vedere i social come una minaccia, possiamo vederli come un’opportunità per migliorare la divulgazione scientifica, purché fatta in modo serio e strutturato.
Come sottolinea Bucchi: «Le organizzazioni, le istituzioni e le università devono investire nella divulgazione, affidando la comunicazione a professionisti formati, che lavorino in sinergia con scienziati e scienziate. Il cambiamento deve partire dalle istituzioni: lasciare la comunicazione alla buona volontà del singolo è sempre un rischio».
Bucchi evidenzia anche un aspetto critico della comunicazione scientifica sui social: i contenuti non sono gestiti da chi fa divulgazione, ma da aziende private il cui obiettivo principale non è informare, bensì trattenere gli utenti il più a lungo possibile sulle piattaforme. In questi ultimi anni si è creato un oligopolio dell’informazione, in cui poche aziende controllano la diffusione dei contenuti - a discapito della pluralità e della qualità dell’informazione.
Un altro punto critico dei social media riguarda la responsabilità: sui media tradizionali esistono regole e conseguenze legali ben definite per chi diffonde informazioni, mentre sui social media questo peso è molto più sfumato, con un impatto significativo sulla qualità e sull’affidabilità delle notizie. Professor Bucchi, siamo arrivati alla fine di questo breve viaggio nel mondo della scienza & social media. Ha qualche consiglio da dare alle e agli scienziati o a chi si cimenta con la comunicazione scientifica?
«Una buona comunicazione della scienza parte sempre da una conoscenza del pubblico. La buona comunicazione della scienza è fatta non solo di accuratezza. Comunicare correttamente significa conoscere il proprio pubblico e le sue aspettative, avere obiettivi chiari di quello che si vuole comunicare e, non ultimo, valutare la comunicazione fatta per misurarne l’efficacia».