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Sedersi al tavolo con Trump

Come si tratta con un partner difficile? Conversazione con Andrea Caputo, esperto di tecniche di negoziazione

1 aprile 2025
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Alessandra Saletti
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

“Il mio stile di negoziazione è abbastanza semplice e diretto. Punto in alto e poi continuo a insistere, insistere, insistere per ottenere ciò che voglio”. Parola di Donald Trump, che già nel 2004 ha distillato il suo stile negoziale nel best seller ‘The Art of Deal’. A distanza di anni la questione di come si negozia con uno come Trump è diventata una tra le preoccupazioni principali delle cancellerie mondiali, visti numerosi fronti aperti dal punto di vista geopolitico ed economico. Analizziamo lo stile di Trump con il professor Andrea Caputo, docente di Tecniche di negoziazione al Dipartimento di Economia e Management.

Professor Caputo, partiamo dall’identikit del negoziatore perfetto: come lo descrive ai suoi studenti?

«Un buon negoziatore è prima di tutto un buon ascoltatore. Ha capacità analitiche, sa analizzare bene lo scenario, ma sa anche quali sono i propri punti di forza e di debolezza. Sa vedere oltre, ha visione del futuro, obiettivi chiari e grandi doti di flessibilità. Ma soprattutto è in grado di cambiare l’equilibrio di potere e recuperare una situazione di svantaggio rispetto a un avversario più forte. Come è Donald Trump, ad esempio»

Veniamo al presidente degli Stati Uniti appunto. Lo ritiene un abile negoziatore?

«Direi proprio di no. Più che un negoziatore, lo definirei un venditore. Nella sua carriera di imprenditore ha dimostrato di essere orientato alla ricerca della massimizzazione del profitto, con grande fiuto per gli affari. Anche oggi lui non ha molto bisogno di negoziare, perché si trova in una posizione di forza rispetto agli altri interlocutori. Il suo stile è competitivo, transazionale e coercitivo. Come lui stesso dichiara, non è incline a trovare una mediazione perché cerca insistentemente il vantaggio per sé, un do ut des. In questo senso lo vedo molto lontano come stile da altri negoziatori che abbiamo visto in azione di recente. Penso ad esempio al primo ministro britannico Keir Starmer che ha senz’altro un approccio più collaborativo e collegiale».

Quindi come si dovrebbe gestire una negoziazione un partner come lui?

«Innanzitutto bisogna tenere presente come si comporta. Trump è molto istintivo nel modo in cui si espone pubblicamente e prende le decisioni. Perde facilmente le staffe e sa sfruttare e manipolare molto bene l’emotività altrui. Lo abbiamo visto bene nel disastroso colloquio con il presidente ucraino Zelens'kyj che è stato colto impreparato, perché non aveva avuto una gestione adeguata dell’agenda e nemmeno un interprete che gli potesse garantire pause di riflessione per riorganizzare le risposte. A Trump non interessa lo standing etico dei partner. Non si cura dei danni alla sua reputazione. E nemmeno sembra essere interessato ai rituali della negoziazione fra le cancellerie. Ha gestito le relazioni con l’Unione europea in totale discontinuità. Le tecniche classiche della diplomazia lo infastidiscono. Cerca subito il confronto diretto l’interlocutore saltando passaggi e intermediari. Lo si vede chiaramente in materia di commercio internazionale: parla direttamente con i singoli stati.
Per questo serve un approccio tattico. Bisogna stare insieme, costruire una coalizione per colmare lo squilibrio di potere negoziale tra le parti. Può essere un modo efficace per disinnescare una strategia che si basa sul ‘dividi e conquista’. E l’Europa sembra, almeno su questo, ben avviata a farlo. L’errore che finora sembra essere stato commesso sta poi, nel voler educare Trump alle regole del dialogo civile. Quindi la prima strategia è quella di trovare un capo negoziatore adatto a intavolare una trattativa»

Ci sono precedenti a cui ispirarsi?

«Una situazione analoga è stata gestita, a mio avviso correttamente, quando ci si è trovati come Unione Europea a fare fronte alla Brexit. La risposta europea è stata unita, compatta. E la negoziazione, lunga e delicata, è stata affidata a Michel Barnier che l’ha svolta con pazienza, nervi saldi e competenza. La svolta vera nelle negoziazioni difficili come questa, sta infatti anche nel trovare il team adatto perché negoziare comporta fatica, impegno, dispendio di tempo e di energie. Bisogna prepararsi, strutturare un dipartimento, consolidare le alleanze. Non mi sembra pensabile che la presidente Ursula von der Leyen riesca a investire il tempo necessario»

Oltre a rafforzare le alleanze, quali altre strategie si potrebbero adottare? 

«Non credo si debba darla vinta o mostrare debolezza. Trump è abituato a lanciare delle ‘opening offer’ molto esagerate. Pensiamo alle dichiarazioni sul Canada o sulla Groenlandia. Questo uscire per primo gli consente di fissare la posta iniziale a suo piacimento, in linea con i suoi obiettivi e stabilire il termine con cui confrontare le trattative successive. In termini tecnici si chiama ‘ancoraggio’ dell’offerta. Chi lo fa per primo, spesso, parte da una posizione di vantaggio perché riesce a definire le aspettative, influenzare le percezioni e indirizzare la negoziazione verso un risultato favorevole per sé. 
Per smontare la trappola dell’ancoraggio può funzionare chiamare il bluff, cioè smascherare apertamente la tecnica. O reagire facendo una controfferta esageratamente bassa per annullare il vantaggio. Oppure anche lasciare il tavolo, come ha fatto il Canada, che potrebbe anche considerare di fare application per entrare nell’Unione Europea. Questo servirebbe a spiazzare e spostare i pesi, aumentando l’effetto deterrenza. Bisogna rendere la soluzione che ci piace di più conveniente anche per Trump, in un’ottica ‘win-win’. Poi si può sfruttare l’impulsività di Trump per inchiodarlo alle sue dichiarazioni quando dice qualcosa che va a nostro vantaggio. Bisogna afferrare il concetto, ripeterlo e se possibile farlo mettere subito nero su bianco, evitando così le gli aggiustamenti o le smentite successive. 
E poi abbiamo un’altra arma potentissima di fronte a questo tipo di comportamenti. È la nostra tanto vituperata burocrazia, che in questo caso come arma negoziale ci può dare una mano. Possiamo rallentare le decisioni, mettere paletti, presentarci con scatoloni di documentazione da far consultare all’avversario. È una tecnica che usano molti studi legali nel mondo anglosassone per far perdere tempo e indebolire l’avversario».

Tanti di questi suggerimenti vengono dal mondo degli affari…

«Sì, in ambito aziendale e commerciale è una prassi consolidata. Quando le imprese negoziano è perché rilevano un problema o un’opportunità e vedono nel futuro qualcosa di migliore. È una questione che riguarda anche le persone: negoziamo per cose che riteniamo importanti, come ad esempio cambiare lavoro. Investiamo tempo ed energie per ottenere il massimo. E succede così di frequente che spesso che non ce ne rendiamo conto. 
Quando si negozia si mettono in atto varie strategie. Una delle più consuete è il framing, cioè l’abilità nel presentare informazioni, indurre bisogni, persuadere o usare bias cognitivi per fare leva sull’avversario. Saperlo fare bene è una soft skill fondamentale che cambia le carte in tavola. La teoria delle negoziazioni richiede competenze di economia comportamentale, psicologia e management. Se prevedere il comportamento delle persone è difficile, nelle negoziazioni tra aziende lo è ancora di più, perché, oltre alle aspettative proprie, vanno messe sul tavolo anche quelle dell’azienda, dal management all’ufficio legale. Ma anche le differenze culturali. Sono mondi che ci portiamo dietro. Lavoriamo molto su questo con gli studenti al Dipartimento di Economia e Management con lezioni teoriche e molte esercitazioni pratiche. In questo senso, Trento è una delle poche università italiane a includere nei corsi di laurea focus sulla negoziazione».