Se il concetto di trasformazione, riferito allo spazio urbano, è in qualche modo intuitivo e ciascuno di noi ne ha un’idea, seppure parziale, quello di rottura è più complesso. Guardare allo spazio urbano in prospettiva storica, con un approccio interdisciplinare, aiuta a comprendere meglio la questione. «Riconoscere la specificità di un luogo significa riconoscere le differenze d’uso da parte di chi lo abita o lo attraversa e, ancora, funzioni e significati che gli vengono attribuiti. Lo spazio è uno specchio della comunità che lo abita».
Sono parole di Giorgia Proietti, ricercatrice del Dipartimento di Lettere e Filosofia e coordinatrice del Lims - Laboratorio interdipartimentale Memoria e Società. L’argomento è stato anche al centro di un workshop che ha messo in dialogo Atene, Venezia e Drancy-La Muette, un abitato che si trova a dodici chilometri da Parigi, e sito di memoria dell’Olocausto. Tre luoghi raccontati in periodi storici differenti - antichità, modernità, contemporaneo - e il filo rosso della memoria a fare da collante. La cornice è quella dei memory studies. Di cosa si tratta? «Un macro contenitore che si occupa di come i gruppi processano il passato, come lo gestiscono, come lo plasmano e come lo significano, soprattutto in occasione di eventi di rottura», spiega Proietti.
Rottura dello spazio urbano come discontinuità. «Pensiamo a quegli aspetti del paesaggio urbano (monumenti, edifici, nomi delle strade, ad esempio) in cui una comunità, in un tempo storico diverso da quello in cui sono stati realizzati, fatica a riconoscersi. C’è chi sostiene che sia giusto eliminarli, perché il paesaggio si aggiorna, evolve insieme ai valori delle comunità che lo abitano. C'è chi, invece, sostiene che vadano rifunzionalizzati, preservandoli come documento storico e come occasione di conoscenza critica su ciò che è stato. Simboli, ad esempio, di un passato schiavista, razzista di derivazione coloniale in cui non ci si riconosce più ma che possono essere conservati proprio come interlocutori, in una dialettica tra passato e presente che può solo stimolare conoscenza e coscienza storica», così la ricercatrice. A sostegno di quanto dice, ci sono gli esempi.
In viale Druso, a Bolzano, c’era la sede della Gioventù Italiana del Littorio (ex-GIL) in un edificio storico costruito dal governo fascista tra il 1934 e il 1936. Il concorso internazionale di architettura che porterà al restauro e alla rifunzionalizzazione dell’edificio è del 1995. Il progetto vincitore, dell’architetto Klaus Kada, porterà a integrare l’edificio storico con una struttura in vetro, cemento e acciaio, che adesso è sede di Eurac Research. La palestra ex-GIL ospita oggi la biblioteca del centro di ricerca, con 20.000 monografie e 300 periodici. «C'è un modo intellettualmente onesto, nei riguardi della storia, e formativo, per una comunità, di relazionarsi a queste fratture del paesaggio urbano – osserva Proietti – preservandole guardando al futuro».
A pochi chilometri da Parigi, nel centro urbano di Drancy, si trova la Cité de la Muette, un quartiere residenziale costruito tra il 1931 e il 1937 che, nel progetto originario, si sarebbe dovuto configurare come una moderna città giardino innovativa ma per varie ragioni – in primis la crisi economia degli anni ’30 – rimase incompiuto. Durante la guerra questo complesso edilizio divenne, dapprima un campo di detenzione temporaneo per prigionieri di guerra francesi e inglesi, in seguito centro di deportazioni degli ebrei dalla Francia verso i campi di sterminio. A guerra finita, il quartiere tornò alla sua funzione residenziale, eliminando ogni traccia di quello che era accaduto. «Soltanto anni dopo, prima negli anni ‘50 e poi negli anni ‘70, sono state aggiunte le prime forme di memoria: un vagone simbolo delle deportazioni viene collocato nel quartiere, un monumento commemorativo sarà realizzato qualche tempo dopo. Ma è nel 2012 che viene aperto il memoriale della Shoah in situ, con una stratificazione di elementi che recuperano, tardivamente, la memoria viva di quel luogo».
«Ci sono comunità che di fronte alle rovine di una città devastata dalla guerra fanno tabula rasa e ripartono da zero. Il nuovo sostituisce il vecchio. Ci sono altri casi di conservazione delle tracce di questa distruzione, delle rovine, delle macerie, per costruire qualcosa di nuovo. Osservare come una comunità si pone di fronte al punto zero della distruzione urbana dice moltissimo dell'atteggiamento che ha verso la propria storia», conclude Giorgia Proietti.




