©Adobe Stock

Ricerca

Oltre la gravidanza naturale

Incubatrice 2.0, alternativa alla gestione per altri, nuove genitorialità. La prospettiva del biodiritto sull’utero artificiale

6 ottobre 2025
Versione stampabile
di Jessica Dallago
Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata – Cibio

Negli ultimi anni, la ricerca sull’utero artificiale ha fatto significativi passi in avanti, in particolare in Giappone, dove si lavora per sviluppare sistemi capaci di supportare la crescita dei feti prematuri al di fuori del corpo materno. Il potenziale di queste tecnologie porta a chiedersi se sarà possibile, in futuro, portare avanti un’intera gravidanza al di fuori del corpo di una donna. Esploriamo lo stato della ricerca, le possibili applicazioni cliniche e le implicazioni giuridiche e bioetiche assieme a Lucia Busatta, docente di Biodiritto e Bioetica del Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata – Cibio dell’Università di Trento.

Professoressa Busatta, come definiremmo giuridicamente l’utero artificiale? Si tratta di un dispositivo medico, di una tecnologia riproduttiva, o di qualcos’altro?

«È presto per dare una definizione. Ciò che per ora sappiamo è che in Giappone sono stati recentemente presentati i risultati promettenti di una sperimentazione animale. I ricercatori sono riusciti a far crescere embrioni di capra in un utero artificiale, una sorta di “biobag”, contenente un liquido amniotico artificiale ossigenato, con un supporto “ombelicale” verso l’esterno. I risultati positivi dell’esperimento aprono interessanti prospettive per un suo eventuale impiego sull’essere umano.
Si tratta sicuramente di un passo avanti significativo dal punto di vista scientifico, ma siamo ancora ad una fase sperimentale iniziale, che non coinvolge l’essere umano».

Quali sono le principali implicazioni etiche nel caso in cui l’utero artificiale venga utilizzato come alternativa alla gravidanza naturale?

«Ci vorrà del tempo per pensare ad un impiego di queste nuove tecnologie sull’essere umano. In ogni caso, il suo uso più promettente potrebbe riguardare il supporto ai grandi prematuri. Una "incubatrice 2.0".
Da qui, il passo successivo è chiedersi se l’utero artificiale possa sostituire del tutto la gestazione.
Dal punto di vista bioetico e giuridico, questo apre due livelli di problematiche.
Il primo riguarda l’uso dell’utero artificiale come supporto in casi in cui la gravidanza non possa proseguire. Si potrebbero ridurre i rischi delle nascite pretermine, che oggi sono fra le principali cause di morte nei primi anni di vita o di disabilità. La biobag potrebbe, da un certo punto di vista, ridurre la medicalizzazione della gestione delle prime fasi di vita con i grandi prematuri. A livello bioetico le questioni in gioco toccano il classico tema del superamento dei confini e dell’appropriatezza clinica, ma anche dell’accessibilità di tecnologie avanzatissime e della loro allocazione.
Se invece consideriamo l’utero artificiale come sostituto dell’intera gravidanza, si apre un vero e proprio “vaso di Pandora”. Se questo strumento permetterà davvero di portare a termine una gravidanza completamente al di fuori del corpo umano, allora il concetto stesso di genitorialità potrebbe essere rivoluzionato».

Quali diritti entrano in gioco quando si parla di gestazione artificiale? Come si inseriscono in questo nuovo contesto?

«È tutto ancora da definire: il diritto interviene solo dopo che una nuova possibilità diventa realtà, cercando di offrire un inquadramento normativo. In questo caso, i diritti in gioco riguardano le scelte riproduttive e la genitorialità.
Chi può accedere a un utero artificiale? Donne, uomini, single, coppie… Se la gravidanza non è più legata ad un utero, chiunque potrebbe usare questa tecnologia per diventare genitore.
Ma allora dobbiamo pensare a cambiare le definizioni di genitorialità, famiglia, legami parentali? Sono concetti fondamentali, tra i più antichi e strutturati nei nostri ordinamenti. Le nuove possibilità offerte dalla scienza ci stanno già spingendo a ripensare in profondità queste nozioni, che sono alla base della nostra convivenza sociale. Ed è questa, forse, la sfida più importante».

C’è il rischio che l’utero artificiale venga visto come una "scorciatoia" rispetto ai divieti di gestazione per altri vigenti in molti paesi europei?

«È decisamente presto per dirlo, perché ci vorranno anni prima che queste tecnologie possano essere utilizzate sull’essere umano. E chissà se, quando questo sarà possibile, la gestazione per altri sarà ancora problematica come è oggi.
Ad ogni modo, ipotizzando che questo possa avvenire in un futuro vicino, non parlerei di scorciatoia, piuttosto di una possibile alternativa, che farebbe passare in secondo piano la criticità forse più significativa della gestazione per altri: la mercificazione del corpo della donna gestante. Da questo punto di vista, l’utero artificiale potrebbe consentire di dare fiato al desiderio di genitorialità di alcune persone che, per diverse ragioni, non possono avere figli. Non senza, però, altre importanti problematiche etiche e giuridiche».

Si prevede un problema di disuguaglianze nell’accesso a questa tecnologia, soprattutto in termini economici o sociali?

«Le disuguaglianze sono un problema globale che riguarda tutte le tecnologie mediche e l’accesso ai benefici del progresso scientifico. Il mondo viaggia a due velocità: ci sono persone che possono accedere a cure avanzatissime; altre che non hanno nemmeno i servizi di base. Lo stesso può valere, in prospettiva futura, per l’utero artificiale».

Qual è il ruolo delle istituzioni (come università ed enti di ricerca) nel garantire un dibattito informato e pubblico su innovazioni così profonde?

«Le università sono il luogo della conoscenza e del confronto critico. Il contesto ideale per costruire momenti di approfondimento e riflessioni interdisciplinari su temi sfidanti come questo. Il ruolo delle istituzioni è promuovere sempre un’informazione consapevole e oggettiva e stimolare un dibattito plurale, aprendosi alla cittadinanza e alimentando la sete di conoscenza».