Dopo la pausa estiva riprende la pubblicazione degli articoli di UniTrentoMag. Abbiamo chiesto a 2 docenti dell’ateneo una recensione dei due film di cui si è parlato molto in questi ultimi mesi per i temi affrontati: “Oppenheimer” e “Barbie”
È stato il film campione di incassi di questa estate. La pellicola di Christopher Nolan su Robert Oppenheimer, definito il padre della bomba atomica, ha avuto il merito di riportare nelle sale tante persone, per la gioia dei gestori di cinema. È stata anche un’occasione per riportare all’attenzione dell’opinione pubblica il tema del legame tra scienza e politica. Si tratta di un rapporto strettissimo, perché la scienza è conoscenza e la conoscenza è potere. Poi, però, dipende da come questo potere viene usato. E il dramma esistenziale vissuto da Oppenheimer ne è la prova. Stefano Oss, ordinario di didattica e storia della fisica dell’Università di Trento, il film lo ha visto, come molti non si è lasciato scoraggiare dalla durata (3 ore). È abbastanza critico nei confronti dell’impostazione generale proposta dal regista e non si dice convinto del messaggio che emerge dall’opera.
«Mi aspettavo un racconto della vita e delle vicissitudini di Oppenheimer, che certamente c’è stato, ma l’ho trovato immerso in un’interpretazione artistica fin troppo introspettiva del protagonista, con un’attenzione molto spostata verso questioni politiche, legate al maccartismo che ha contrassegnato l’America in quegli anni. Mi sarebbe piaciuto assistere anche a una ricostruzione della complessa storia scientifica dello sviluppo degli ordigni nucleari, ma non l’ho vista».
È stata un’occasione persa per spiegare un’operazione tanto importante in modo diverso, e magari arrivare di più al grande pubblico?
«Diciamo che è stata un’occasione non spesa bene. La vicenda personale di Oppenheimer è intricata. Mi è parso però che gli aspetti politici abbiano reso confusa la questione del rapporto tra scienza e società. Inoltre il percorso scientifico e tecnico dell’operazione raccontata è stato incredibilmente articolato, ha richiesto l’impegno e l’ingegno di dozzine di scienziati di altissimo profilo. Nel film quest’impresa è ridotta a chiacchierate poco realistiche tra qualche scienziato alla lavagna. Ancora peggio, secondo me, è stato trasformare Oppenheimer, che pure era il capo scientifico del progetto Manhattan, in protagonista assoluto del lunghissimo scambio di idee e di contributi dei suoi colleghi, ridotti spesso nel film a mere comparse. Si parla di figure come Fermi, Feynman, Wigner, Bohr, Compton, Segré, Lawrence e altri, tutti premi Nobel per la fisica, riconoscimento che Oppenheimer non ha mai ricevuto. Sono rimasto anche deluso dal fatto che la pellicola alimenta l’equazione che “nucleare corrisponde a pericolo”, e restituisce la visione dello scienziato come “distruttore di mondi”. La prospettiva, stupida, di far saltare in aria il mondo ha origine e sussistenza militare, quindi l’equazione andrebbe cambiata».
Come si pone lo studioso di fronte al rapporto tra scienza, politica e morale?
«Lo scienziato è un essere umano e, in quanto tale, dovrebbe essere dotato di naturali regole comportamentali di salvaguardia per la sopravvivenza della specie. La questione però si complica perché lo scienziato è anche parte integrante del sistema della ricerca, che a sua volta deve rispondere alla politica. È un tema difficile, quello del rapporto fra etica e scienza e non credo ci sia una soluzione unica. Anche dal film emerge in proposito una visione conflittuale, a maggior ragione per il fatto che si è trattato di un evento storico drammatico e, si auspica, irripetibile. Si può ragionare però su questo argomento anche in termini meno angoscianti e più attuali. Le decisioni di ordine etico che deve prendere lo studioso sono più frequenti di quanto si possa immaginare. Da questo punto di vista io ho un’idea di scienza “democratica”: i suoi prodotti, culturali e tecnologici, devono essere per il bene di tutti, ma il dibattito scientifico non può invece essere accessibile a chiunque. Solamente gli addetti ai lavori devono esprimersi su contenuti e problematiche di ordine tecnico. Oggi, complici i social, è pieno di esperti improvvisati pronti a discutere di ogni argomento, dalle centrali nucleari alle cellule staminali, dai vaccini alle energie alternative. Questo fenomeno sta intaccando pericolosamente l’autorevolezza degli scienziati».
Si torna a parlare prepotentemente del “pericolo nucleare”: in che direzione sta andando la ricerca?
«Il termine “nucleare” viene quasi sempre associato agli ordigni, che ovviamente fanno paura, e alle centrali per la produzione di energia. C’è anche però un’area importante della medicina che si qualifica come “nucleare” per le tecniche di diagnosi e di terapia impiegate per il benessere e la salute delle persone. In ogni caso, pensare alla distruzione orribile di Hiroshima e Nagasaki negli stessi termini degli incidenti alle centrali di Chernobyl o di Fukushima è assurdo. L’immagine, spesso veicolata in maniera errata anche dalla stampa, che accosta il “fungo atomico” a una centrale nucleare guasta, o danneggiata come gli impianti ucraini durante il conflitto in corso, è priva di fondamento scientifico. Nelle centrali si utilizzano uranio o plutonio, elementi contenuti negli ordigni, ma in questi ultimi si deve utilizzare un “isotopo”, un particolare tipo dell’elemento prodotto con una procedura molto costosa e complessa di “arricchimento”. Senza questo processo una centrale non potrà mai esplodere con il “fungo atomico”. Oggi nel mondo più di 400 reattori nucleari producono energia elettrica: in circa 70 anni di storia di questa tecnologia sono accaduti solamente i due incidenti prima citati, con effetti sulla popolazione a conti fatti estremamente contenuti, se pensiamo ad altre forme di energia che, direttamente o indirettamente, hanno causato centinaia di migliaia di morti. Penso al Vajont: nonostante quel disastro, nessuno si sognerebbe di chiudere gli impianti idroelettrici. O all’inquinamento provocato dalle emissioni di anidride carbonica di origine fossile che causano ogni anno a livello globale milioni di vittime».
Cosa le resta in definitiva del film?
«Oltre all’inquietudine della domanda irrisolta sull’opportunità di bombardare il Giappone con ordigni di potenza mostruosa, avrei preferito portare a casa anche un messaggio positivo dell’impresa scientifica che con il nucleare ci consente di vivere più a lungo e meglio».