il presidente Daniele Finocchiaro ©Unitrento ph. Federico Nardelli

Storie

Il miglior risultato? La partecipazione

Sei anni di Ateneo aperto alla società: un bilancio per il presidente Daniele Finocchiaro

3 ottobre 2024
Versione stampabile
di Alessandra Saletti
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

Incontri, telefonate, visite, riunioni e 68 sedute del Consiglio di amministrazione. Ben 2190 giorni di lavoro. Poi, un giorno, quel capitolo si chiude e arriva il momento di tracciare il bilancio di un’esperienza. A guardare l’evoluzione dell’Università di Trento negli ultimi sei anni da un punto di vista privilegiato è il presidente uscente del Consiglio di amministrazione, Daniele Finocchiaro. A pochi giorni dall’Assemblea di Ateneo, ultimo suo evento pubblico in carica, UniTrento Mag ha chiesto al presidente di raccontare la sua esperienza all’Università di Trento.

Presidente Finocchiaro, sono gli ultimi giorni per Lei alla guida del Consiglio di amministrazione. Da dove cominciamo a ripercorrere questi sei anni?

«Direi di partire dall’inizio, da quel 12 ottobre 2018 in cui tutto per me è cominciato.
Mi ricordo bene quei giorni. Il mio primo evento pubblico è stata l’inaugurazione dell’anno accademico. Quel giorno era speciale perché l’Ateneo aveva appena incassato una promozione a pieni voti dall’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario. Trento era allora primo e unico ateneo in Italia tra i 35 valutati ad aver ottenuto il giudizio più alto. Ero molto colpito e sentivo anche il peso della responsabilità, mia, ma anche di tutto l’Ateneo a fare bene, a mantenere quel riconoscimento. Oggi, guardando indietro, so che era solo il primo di tanti altri momenti significativi e di altri riconoscimenti venuti in seguito. Vuol dire che questa Università è stata capace di mantenere l'eccellenza».

Come avete accompagnato questo percorso?

«Una delle prime cose che abbiamo fatto è stata quella di ascoltare. Come Consiglio di amministrazione abbiamo visitato dipartimenti, centri di ricerca, ma anche le altre istituzioni del territorio, come la Fondazione Bruno Kessler e la Fondazione Mach, oltre alle aziende con cui l’Ateneo collabora.
Quella fase mi è servita tantissimo. Poi con la pandemia i ritmi e la vicinanza fisica sono purtroppo un po’ cambiati. A tenere i contatti sono servite le due assemblee pubbliche – una nell’aprile 2022 su partecipazione e confronto con il territorio e una pochi giorni fa su medicina e salute – precedute dai vari tavoli preparatori.
In quelle occasioni abbiamo ascoltato e affrontato insieme alcune questioni aperte anche per l’Ateneo, come gli spazi non sempre adeguati alle necessità, le procedure faticose per acquisti e gare, le risorse che sembrano non bastare mai per accompagnare tutti i nostri progetti. O come dare ulteriore competitività alla nostra ricerca e farla interagire ancora di più con il mondo delle imprese».

Ecco, con le imprese come è stato il dialogo?

«C’era allora – e c’è in parte anche oggi – un problema di linguaggio comune, tra università e imprese. Molto è stato fatto per migliorare questo dialogo, ma a volte si fa ancora fatica a capirsi. In virtù della mia storia professionale, considero centrali le esigenze delle aziende e del territorio, che l’università deve essere capace di intercettare disegnando progetti formativi e trovando risposte nella ricerca di qualità. Sul riconoscimento della centralità dell’innovazione, poi, ci siamo trovati da subito tutti d’accordo. E su questo abbiamo potuto gettare basi comuni su cui si sono sviluppati progetti, corsi di laurea, dottorati».

Qualche esperienza che vale la pena di citare, in particolare?

«Un esempio di raccordo accademia-impresa che ha funzionato molto è la partecipazione di UniTrento in Smact, il Competence Center impresa 4.0 che è stato creato nel Triveneto per supportare la trasformazione digitale delle imprese. Lì siamo riusciti a creare un ecosistema di innovazione fondato sulla ricerca, sia quella pura, sia quella applicata. Oggi il potenziale della digital transformation lo vediamo prendere forma nel Live Demo di Rovereto, una delle fabbriche scuola diffuse che sono state aperte con successo. I legami con le imprese sono stati avviati, pronti per innestare ulteriori attività di ricerca e di innovazione».

Anche di trasferimento tecnologico?

«Sì certamente. È un passaggio fondamentale perché consente di rendere fruibili le scoperte scientifiche e l’innovazione. Sul trasferimento tecnologico c’è molto dibattito. Non tutte le università e i centri di ricerca si sono attrezzati per tempo per svilupparlo. L’Università di Trento, invece, si è attivata presto, in una logica di eco-sistema, insieme alla Fondazione HIT. Siamo partiti e siamo già molto avanti rispetto ad altre regioni».

Un altro tema che le è stato a cuore fin dall’inizio è stata la formazione continua…

«Sì. Una cosa mi è sempre sembrata strana: si studia all’università per cinque anni, intensamente. Magari qualcuno fa anche il dottorato. Poi si trova lavoro e finisce lì. Non ha senso che la formazione si interrompa. Senza aggiornamento continuo, corsi flessibili e su misura, siamo come macchine operative che rischiano di essere sottoutilizzate. Possiamo fare molto di più».

Negli ultimi anni si è diffuso il ‘challenge based learning’, l’apprendimento esperienziale che stimola ad affrontare sfide legate alla realtà. Che risultati può dare questo nuovo approccio?

«Molti e positivi. La chiave della ricerca sta nella capacità di mettere assieme competenze differenti, applicandole alla realtà. Un tipo di collaborazione orizzontale nuova ed estremamente efficace, che supera il modello verticale, disciplinare. Ad esempio, la ricerca oncologica non è più territorio di indagine dei soli oncologi, ma anche di chi si occupa di statistica, di economia sanitaria, di data science o di biologia e fisica… Ancora non siamo strutturati per fare ricerca in modo trasversale, ma quella è la strada. Ed è lungimirante la decisione dell’Università di Trento di aderire al consorzio degli atenei europei innovativi Eciu che su questo si fonda».

Negli ultimi sei anni UniTrento ha anche avviato le attività nel fundraising e riallacciato il rapporto con chi si è laureato da noi, gli alumni…

«Sì è fondamentale, anche se ancora negli atenei pubblici, si fatica a pensare in quest’ottica. Serve tempo perché la collettività si renda conto dell’importanza sociale dell'università, è un passaggio culturale. Per UniTrento è stato importante almeno cominciare, posizionarsi.
Sugli alumni abbiamo riscoperto l’importanza di avere una relazione con chi ha completato gli studi. Frequentare l’Università vuol dire fare una esperienza di comunità, questo rimane nel ricordo di ognuno di noi. Dare continuità a quei ricordi, un nuovo significato ai rapporti interpersonali e professionali aiuta anche nel presente. Abbiamo lavorato sul senso di appartenenza, anche attraverso l’esempio delle persone che lavorano qui. Con la loro competenza, il rigore professionale e procedurale danno vita a una macchina organizzativa molto efficiente, orientata a obiettivi comuni. Non scontata da trovare».

Infine sulla ‘terza missione’, termine che ben si adatta alla figura di raccordo con il territorio che la carica di presidente rappresenta…

«Un concetto a me sconosciuto all’inizio del mio mandato, va detto… Ora quel termine è entrato a forza nei piani di strategici, più attenti ad esercitare la missione di valorizzazione e di trasferimento delle conoscenze.
Aprirsi vuol dire ascoltare e vivere il contesto socio-economico di riferimento. Quando UniTrento lo ha fatto, il riscontro in termini di risposta, presenza e partecipazione attiva è stato al di sopra delle mie migliori aspettative. Una chiara dimostrazione che i rappresentanti delle istituzioni, delle categorie, gli attori sociali del territorio riconoscono il valore propulsivo dell’Ateneo. È un po’ una conferma della eredità lasciata 60 anni fa, quando è nata questa università. Allora il Trentino ha deciso di partire dalla ricerca e dalla cultura. A distanza di anni, è ancora questo il motore di sviluppo di questo territorio».