Ardan Dal Rì, al secolo Francesco Dal Rì, chitarrista elettrico di formazione e dottorando in Ingegneria e Scienza dell'Informazione all’Università di Trento, studia l’applicazione delle intelligenze artificiali ai segnali audio. Oltre alla ricerca, si dedica a installazioni multimediali, performance audiovisive e concerti in live coding, esplorando il connubio tra arte e scienza. In questa intervista racconta il suo lavoro e il suo approccio innovativo alla musica.
Salve, vuole raccontarci il suo lavoro di ricerca?
«Mi occupo di audio generativo. Attualmente sto lavorando principalmente su modelli a diffusione che generano forme d'onda, quindi su reti di “denoising” addestrate a trasformare del rumore puro in un suono verosimile. L’obiettivo è generare campioni monofonici di strumenti orchestrali con un alto livello di dettaglio. In parallelo, mi occupo di rappresentazioni latenti, ovvero indago come alcune tipologie di reti riescano a condensare le peculiarità di un segnale audio in pochissime dimensioni».
L’interesse per la musica quando è iniziato?
«Tardissimo. Ho iniziato a suonare la chitarra a 17 anni, fondamentalmente per caso, poi ho deciso di dedicarmici seriamente. Tuttora, anche se sono finito a fare altro, resto pur sempre in campo audio, e la componente creativa occupa comunque larga parte del mio tempo libero».
E la contaminazione con il mondo dell'intelligenza artificiale quando è avvenuta?
«Sono arrivato all'informatica dal mondo dell'analogico: quando ho iniziato a suonare mi sono subito appassionato ad effetti, sintetizzatori, e altre cose strane, alcune delle quali autocostruite. Poi un carissimo amico mi ha spinto a studiare musica elettronica, quando io ancora di computer non sapevo nulla. Mi sono quindi iscritto in Conservatorio, appassionandomi alla componente informatica e alla musica d'avanguardia. Inizialmente ero più orientato alla composizione e al design di interfacce ed ecologie performative, poi piano piano, con i tempi permessi dal mio essere autodidatta, ho iniziato a spostarmi sul lato più tecnico e quindi reti, algoritmi e deep learning».
Quali sono per lei le potenzialità e i limiti invece in questo ambito?
«Per me è un modo molto interessante di mettere mano al materiale sonoro. Nell'ambito della composizione elettroacustica siamo abituati da sempre ad avere manopole da girare, pomelli, dati, o componenti da assemblare. Utilizzare una rete neurale consente di esplorare la creazione sonora in una maniera diversa, e questo stimola un nuovo approccio creativo. Personalmente, sono invece estremamente scettico riguardo i sistemi che generano automaticamente un brano da prompt. Non conosco nessun compositore disposto a usare questo tipo di sistemi, perché non si ha nessuna possibilità di controllo. Ne capisco l’utilizzo commerciale, ad esempio per creare musica d’ambiente o consumo, ma parliamo di un fine molto diverso dal mio. Credo ci siano dei modi decisamente più interessanti di usare le reti, però alla fine mettere insieme i singoli mattoncini resta ancora appannaggio della creatività del compositore».
Recentemente è stato ospite del Teatro della Meraviglia, vuole raccontarci la sua esperienza?
«La performance è nata perché Andrea Brunello mi ha chiesto di esibirmi in due serate ospitate a Le Garage Lab, che è forse l'unico spazio rimasto in città dove ancora si può ascoltare musica diversa in un ambiente confortevole. All’inizio avevo qualche dubbio perché questo tipo di musica, specialmente per il pubblico generalista, non è un ascolto facile, e richiede un certo tipo di abitudine ai suoni alternativi, ma anche una certa conoscenza del funzionamento o comunque dello sviluppo storico ed estetico di alcune esperienze. Ho quindi messo in piedi tre set, uno la prima sera e due la seconda, pensati come una specie di showcase di cose strane che potessero risultare interessanti. Durante la prima sera ho suonato i sintetizzatori modulari, macchine giganti piene di luci e cavi colorati. La seconda sera, invece, ho proposto due piccoli set incentrati sull'elettromagnetismo: un primo set con un’orchestrina di trasformatori e Theremin; e un secondo, con una performance di live coding in cui ogni suono utilizzato deriva direttamente da campi elettromagnetici».
Non ha paura che la diffusione di queste tecnologie possa esaurire la creatività?
«No, sinceramente no, mi sembra uno spauracchio dettato il più delle volte dall’assenza di idee. Per il momento io non vedo reti in grado di costruire metafore. Se voglio esprimere un concetto, un'idea, alla fine a fare la differenza è il modo in cui io costruisco una narrativa, e le scelte che imprimo nel processo. Ci sono dei tool che posso decidere di usare o non usare, ma resta pur sempre una mia libertà. Semmai possiamo parlare di come queste tecnologie possano impattare o influenzare l’espressione artistica, ma se c'è un'esigenza creativa, essa rimane nelle mani dei compositori, dei musicisti o di chi fa arte, e come tale non può essere sostituita né delegata».