La Facoltà di Giurisprudenza di Trento ha ospitato Tiberio Bentivoglio, imprenditore di Reggio Calabria, titolare di un negozio di articoli sanitari, che nel 1992 ha deciso con la moglie di ribellarsi alla malavita locale, subendo da allora sette attentati. L’incontro è stato promosso da eCrime in collaborazione con la Facoltà e con le associazioni Divieto di Sosta e Libera Trentino. A moderare l’incontro il docente di Criminologia Andrea Di Nicola.
"Una decisione sofferta ma doverosa, - ha dichiarato Bentivoglio durante l'incontro del 10 aprile - denunciare è un atto di democrazia". Bentivoglio ha dipinto con lucidità il suo percorso, facendo rivivere alcuni degli episodi più significativi alla platea, composta principalmente da studenti di Giurisprudenza. La prima udienza in un'aula bunker, a due metri dalla gabbia dove gli accusati lo sbeffeggiavano apertamente, facendo segni ai propri avvocati e “picciotti” presenti in aula. La ricerca, durata oltre 9 mesi, di un avvocato disposto a difenderlo, perché stare dalla parte della malavita è spesso conveniente - la criminalità organizzata può pagare parcelle molto generose - o comunque più semplice, meno rischioso. L'ostracismo che passa dalla voluta inefficienza amministrativa, con i cancellieri che comunicano con sguardo beffardo l'impossibilità di fissare le udienze per una presunta mancanza di aule, in modo da arrivare alla prescrizione dei termini.
La denuncia di Bentivoglio riguarda diversi ambiti sociali. Coinvolge la Chiesa, o una parte di essa, che talvolta sembra chiudere gli occhi davanti agli atti mafiosi. Riguarda le banche, che gli hanno girato le spalle quando ha perso il negozio nell'incendio. “Lo Stato, che meno di due settimane dopo l'attentato e la conseguente chiusura forzata del negozio, ci ha fatto notificare da Equitalia il pignoramento prima del negozio, e più tardi della casa. E infine - ricorda Bentivoglio con amarezza - il mio quartiere che mi ha girato le spalle, la gente con cui sono cresciuto che ha smesso di frequentare il mio negozio perché io ‘ho tradito’, e mio figlio non trova lavoro perché ‘papà ha denunciato’ i mafiosi.”
Bentivoglio sottolinea con forza l’abissale differenza tra una vittima di mafia e un collaboratore: “Le vittime sono quelle che si ribellano, alzano la voce, rischiano la vita. I collaboratori sono criminali, mafiosi, assassini che hanno un passato malavitoso. Spesso le due figure si confondono e questa è un'offesa ingiusta e profonda per le oltre 6.000 vittime di mafia che in Italia ricevono spesso meno protezione dei collaboratori".
Dopo aver invitato il pubblico ad applaudire i Carabinieri, responsabili della sua sicurezza - ora che vive sotto scorta -, e Libera, l'associazione contro le mafie che ha giocato un ruolo di sostegno fondamentale nei momenti più difficili del suo percorso, Bentivoglio accoglie le domande dei giovani a cui ha parlato. Dal pubblico lo interrogano:
“Come ha fatto a non perdere mai la fiducia, a non gettare la spugna in questi anni?”
“Perché ha deciso di rimanere in Calabria, una terra che sembra rimanere indifferente alla sua denuncia, dove ha impiegato 9 mesi per trovare un avvocato disposto a difenderla?”
“Cosa possiamo fare noi giovani per sostenere la sua lotta?"
“Non ha senso denunciare e scappare. – Risponde Bentivoglio. - È importante che io continui a girare, a parlare ai giovani, alle istituzioni, alla gente. I mafiosi hanno paura di questo. In un’intercettazione telefonica che ho avuto modo di ascoltare durante un'inchiesta parlavano proprio di questo: 'Se la gente si ribella siamo fregati'. Per questo giro il più possibile e ho apprezzato l'invito del professor Di Nicola a parlare qui a Trento. Il Trentino è alieno a forme di criminalità organizzata ma la mafia non è solamente fatta di sparatorie e di atti violenti. La mafia oggi chiede il pizzo con il sorriso sulle labbra, con gentilezza. Chiede ai negozianti di cambiare assegni post-datati. Di anticipare merce che in teoria si dovrebbe pagare in futuro. Imponendo ad un commerciante di rifornire gratuitamente il negozio dell’amico. La mafia è nella cultura. Saltare la fila in un ufficio facendo una telefonata al funzionario responsabile della pratica è un comportamento antidemocratico, mafioso. Parcheggiare in doppia fila è un comportamento antidemocratico. Accettare un vantaggio per accedere a un posto di lavoro ambito è un comportamento antidemocratico. Tutti questi piccoli comportamenti costruiscono la cultura mafiosa. Per questo è importante intervenire con l’istruzione, fin dalle scuole primarie: con strumenti didattici semplici - fumetti, storie, libretti da colorare - si deve insegnare ai piccoli a comprendere la differenza tra bene e male, tra giusto e sbagliato. La cultura è il vero nemico della mafia”.