Antartide. La Stazione di ricerca italo-francese Concordia, gestita congiuntamente dal Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA) e dall’Institut Polaire Francais Paul-Emile Victor (IPEV), sorge su un’altura denominata Dome C (75°S, 123°E), a 3.233 m di altezza, 1200 km dalla costa antartica e più di 15.000 km di distanza dall’Italia. È uno dei luoghi più freddi, secchi, isolati e inospitali della Terra; la temperatura massima non supera i -30°C e la minima in inverno scende al di sotto dei -80°C. Nove mesi di isolamento in un team multiculturale di 13 persone, 3 mesi di luce e 3 mesi senza sole da maggio ad agosto. È qui che Lorenzo Moggio ha trascorso un anno della propria vita da novembre 2014, come membro dell’undicesimo “winterover” a Concordia e della trentesima spedizione italiana in Antartide.
Dottor Moggio, lei non è alla sua prima missione in Antartide. Come è arrivato alla decisione di partire per un luogo così estremo?
Durante il lavoro di tesi specialistica svolto presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima (ISAC) del CNR di Bologna nel 2009, venni in contatto con un ricercatore che mi parlò del lavoro portato avanti dal loro gruppo di ricerca in Antartide. Stavano cercando un laureato in fisica per coprire la posizione annuale di fisica dell’atmosfera e meteorologia. Appassionato di avventura, montagna, ghiacci, ambienti estremi e isolati, vidi la possibilità di svolgere attività di ricerca in un laboratorio all’aperto, dove la sfida non fosse solo intellettuale, ma anche fisica. Così mi laureai in fretta e partii. Fu un’esperienza incredibile che lasciò il segno. Dopo cinque anni, la nostalgia del continente antartico si faceva ancora sentire e alla chiamata per un secondo anno tra i ghiacci, decisi di ripartire.
Quali erano gli obiettivi di ricerca di questa spedizione e in particolare quali i suoi compiti?
La stazione italo-francese Concordia è stata terminata nel 2005 sul finire del progetto EPICA, un progetto europeo di carotaggio del ghiaccio che ha permesso di ricostruire il clima degli ultimi 800.000 anni. Il sito è stato scelto in quanto “piattaforma” ideale per svolgere attività di ricerca e monitoraggio in una serie di ambiti tra cui: fisica e chimica dell’atmosfera, glaciologia, paleoclimatologia, astronomia, astrofisica, sismologia, geodesia, meteorologia spaziale, medicina spaziale, psicologia e fisiologia umana.
Le regioni polari e in particolare l’Antartide, sono tra le più sensibili e responsive ai cambiamenti climatici e allo stesso tempo le più isolate. Da qui l’importanza di avere una rete di osservatori permanenti e presidiati al fine di raccogliere misure di qualità e continuative nel tempo, grazie all’integrazione di tecniche osservative di diversa natura (in-situ, remote sensing da terra e da satellite), allo scopo di monitorare il sistema Terra-Atmosfera e le variazioni climatiche, studiarne le cause, i processi e le interazioni tra le diverse componenti, intercalibrare varie strumentazioni, valutare l’affidabilità dei modelli meteorologici e climatici, contribuire alle banche dati internazionali utilizzate dai centri operazionali per l’elaborazione delle previsioni del tempo e del clima.
Personalmente gestivo strumentazione e misure meteorologiche, di fisica dell’atmosfera e del clima per i progetti di ricerca italiani, oltre a collaborare con gli altri colleghi. Mi occupavo quotidianamente dell’osservatorio meteorologico, gestendo le stazioni meteorologiche al suolo e i radiosondaggi in quota, dell’osservatorio radiometrico, della stazione BSRN (Baseline Surface Radiation Network), di radiometri per misure accurate e continue, del bilancio e dei flussi di radiazione superficiali, della radiazione UV e del contenuto colonnare di ozono, delle misure del carico colonnare di aerosol e delle caratteristiche ottiche e fisiche degli aerosol al suolo.
Ci racconta come si svolgeva la sua giornata alla Stazione Concordia?
Mi svegliavo alle 8 di mattina, mi recavo al terzo piano della “torre rumorosa” per la colazione, andavo poi nel mio laboratorio al terzo piano della “torre calma” dove controllavo la posta elettronica, il buon funzionamento della strumentazione, di tutte le procedure di acquisizione e invio dei dati ai capi progetto e alle banche dati internazionali. Dopo pranzo mi vestivo e uscivo all’esterno, con qualsiasi temperatura e/o condizione di visibilità per recarmi a piedi, tra 1 e 2 km di distanza dalla stazione, nei pressi dei cosiddetti shelter, rifugi riscaldati a circa 8°C in cui vi sono computer ed elettronica per l’acquisizione dei dati, strumentazione (interna ed esterna) e laboratori. Qui svolgevo operazioni di routine, pulizia, gestione e manutenzione della strumentazione, controllo di elettronica e informatica per l’acquisizione dati. Dopo il “giro degli strumenti” e svariati chilometri nelle gambe rientravo in base, mi scaldavo con un tè caldo e una merenda, dopodiché preparavo il quotidiano radiosondaggio meteorologico che lanciavo tutti i giorni alle 12UTC (Coordinated Universal Time), le ore 20 locali. Questo, costituito da una serie di sensori meteorologici per la misura di pressione, umidità, temperatura, velocità e direzione del vento, agganciati ad un pallone riempito di elio, sale in aria fino a circa 30 km trasmettendo i dati a terra via radio. Una volta esploso dopo circa 2 ore, provvedevo all’invio dei dati all’Aeronautica militare e alla rete GTS dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale. Oltre alle attività di ricerca svolte in prima persona ero anche soggetto di studio negli esperimenti portati avanti dall’Agenzia Spaziale Europea sul team di Concordia e partecipavo alle attività collettive.
Lei non si è laureato a Trento. Come mai la scelta di frequentare qui il dottorato di ricerca in Fisica e quanto è stata importante la sua formazione per l'esperienza in Antartide?
Dopo alcune esperienze nell’insegnamento e un periodo come operatore didattico al MUSE-Museo delle Scienze, si è presentata la possibilità di fare un dottorato di ricerca in Didattica e comunicazione della Fisica presso il Laboratorio di Comunicazione delle Scienze Fisiche diretto dal professor Stefano Oss. L’aver approfondito queste materie mi ha permesso di affiancare al lavoro di fisico sperimentale un’intensa attività di comunicazione dell’attività di ricerca. Tra le iniziative svolte cito le oltre 50 videoconferenze con scuole italiane ed estere, un blog su Le Scienze online, un Reddit Science AMA, la scrittura di qualche articolo divulgativo interviste e una proposta editoriale in corso. La fisica, anche se non è per tutti, è di tutti. Di qui la necessità di comunicarla e renderla accessibile, per quanto possibile, ai non addetti ai lavori, soprattutto in una società come quella di oggi, in cui scienza e tecnologia sono sempre più importanti e presenti nella nostra vita quotidiana.
Ci può parlare del suo percorso di dottorato?
Sto lavorando all’interno del mio progetto di dottorato a delle proposte didattico-comunicative legate alle attività di ricerca svolte in Antartide, da trasferire nelle scuole a docenti e studenti e al pubblico generico, su tematiche attuali quali meteorologia e clima. Finora, nelle occasioni passate, ho notato che raccontare un’esperienza di vita e ricerca all’estremo come quella che ho vissuto in prima persona in Antartide, stimola notevole curiosità e interesse in quanto scienza, avventura ed esplorazione si mescolano in una dimensione nuova ed intrigante. Ciò che può fare un dottorando in comunicazione delle scienze fisiche è molto vario e può spaziare dallo sviluppo di nuove metodologie didattiche, di nuovi strumenti di visualizzazione, di nuovi approcci alla fisica, alla progettazione di corsi di formazione e aggiornamento dei docenti, alla programmazione di interventi nelle scuole in cui presentare la fisica in modo innovativo, alla pianificazione e organizzazione di conferenze e iniziative rivolte al pubblico. Infine, un aspetto fondamentale riguarda la valutazione dell’impatto e dell’efficacia delle iniziative progettate ed attuate.