Un tema tanto delicato quanto dirompente. La cronaca recente mostra come quello del suicidio sia un fenomeno che tocca profondamente le giovani generazioni. E, in ambito universitario, le criticità legate alla costruzione della propria identità possono sommarsi a quelle che dipendono dal percorso accademico. Talvolta, il malessere sembra così pervasivo da annullare ogni speranza nel futuro.
Paola Venuti, docente al Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive, ma anche prorettrice alla didattica, ci ha aiutato ad analizzare le dinamiche che stanno dietro al gesto estremo del suicidio e quale può essere il ruolo dell’educazione e dell’Università.
Professoressa Venuti, quali dinamiche psicologiche stanno dietro al suicidio, soprattutto quando legato a una carriera universitaria?
«Come Servizio di consulenza psicologica del nostro Ateneo vediamo un aumento notevole del malessere dei giovani studenti, con motivazioni di vario tipo. Personalmente, non credo che sia responsabilità o colpa dell’Università. Se una persona, perché va male a un esame o perché non riesce ad affrontare determinate situazioni, arriva a fare gesti estremi, è perché ha alti livelli di ansia e malessere. Credo sia necessario cambiare il modo in cui noi guardiamo ai giovani. Sicuramente, il mondo dell’educazione e della scuola ha pochi luoghi in cui parlare e la scuola non è più luogo di dialogo e confronto».
È un’evoluzione recente o arriva da lontano?
«Forse anni fa il successo scolastico non era così determinante, almeno nell’immaginario dei genitori, come lo è oggi. Per i singoli studenti è importante andare bene, ma spesso solo perché devono far contenta la famiglia. Questa è una responsabilità molto forte che corrisponde a un investimento sbagliato degli adulti. Pochissimi studenti lavorano perché è considerata una perdita di tempo nel percorso di studio: io ho sempre detto a tutti "con poco tempo a disposizione, si studia meglio". Però abbiamo una scuola che insegna poco il metodo di studio e un’università spesso poco attenta a queste dinamiche».
Quali sono gli elementi di vulnerabilità sociale a cui prestare attenzione?
«Il carico delle aspettative, da una parte, e, dall’altra, il non aver abituato le nuove generazioni a tollerare la frustrazione. Il famoso permissivismo, l’assenza della regola, il dire sempre che va bene. Le nuove generazioni oggi non devono più lottare per essere quello che sono, ma sono cresciute pensando che tutto sia facile. Oppure, viceversa, non hanno avuto l’opportunità di scoprire quello che sono realmente, perché hanno semplicemente assecondato i "piani" dei genitori. Tutto questo genera ansia e malessere. Credo si debba lavorare con le famiglie, ma credo anche che le istituzioni educative abbiano un ruolo fondamentale, dal nido fino all’università. Non si può aver vergogna perché non si va bene o si sbaglia».
Come si affronta un fallimento?
«Semplicemente, circoscrivendolo a qualcosa che non è stato gestito bene. Il ruolo del docente è aiutare a capire perché. Il fallimento non deve essere visto come un giudizio sulla persona ma come un problema da gestire insieme per poterlo superare.
Forse un tempo avevamo più omogeneità. Oggi, proprio per le diverse strutture educative ma anche per le diverse tipologie di famiglia, l’omogeneità non esiste più. C’è una grande disomogeneità. Gli insegnanti devono fare i conti con questa disomogeneità ed insegnare in maniera molto più individuale, a partire dai livelli diversi. La stessa cosa, in modo diverso, dobbiamo farla anche all’università».
Che messaggio vorrebbe trasmettere agli studenti e alle studentesse che stanno vivendo un momento di difficoltà?
«Chiedete aiuto. Esistono in tutte le università servizi di consulenza psicologica, andateci. Chiedete aiuto, non vi vergognate. Se state male, chiedete aiuto e c’è la possibilità di farcela con l’aiuto di persone esperte, con l’aiuto di colleghi e colleghe, con l’aiuto della famiglia. Non bisogna, davanti alla difficoltà, pensare che è un tuo problema, che tu non funzioni e quindi nascondersi: chiedi aiuto. Se c’è un problema, parlane».