Un esame andato male non dovrebbe essere un fallimento, ma può diventarlo in base al significato che la persona dà a quella valutazione negativa. Molti studenti e studentesse di fronte a un brutto voto o a una bocciatura crollano. Un momento che viene vissuto come un ostacolo insormontabile che crea stress, panico, agitazione. A fornire un quadro della situazione è l’Istat: in Italia il 33 per cento di chi frequenta i corsi universitari soffre di ansia, il 27 per cento di depressione. In molti casi si rischia il ritiro sociale e la rinuncia agli studi. Una sofferenza che cresce, come dimostrano i dati di accesso al Servizio di consulenza psicologica dell’Università di Trento. Negli anni le richieste sono aumentate, passando dalle 243 del 2020 alle 357 del 2023. Un trend stabile, dopo l’impennata del 2021 con 379 domande. Il Servizio ha organizzato una serie di incontri di gruppo per imparare a gestire l’ansia.
Partiamo proprio da qui. L’ansia non va eliminata, perché ha una sua funzione. Ne è convinta Anna Peripoli, assegnista di ricerca del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive che gestisce i gruppi all’interno dei quali si lavora su questo stato emotivo. «Spesso – ci racconta – i ragazzi e le ragazze vengono da noi con l’idea, legittima, di eliminare del tutto l’ansia, ed evitare definitivamente episodi che possano provocarla». Dello stesso parere Carolina Coco, coordinatrice dello staff del Servizio di Consulenza psicologica dell'Università. «Anche l’ansia è necessaria. Ci mette in allerta. Permette di attivare tutti i sensi per poter affrontare una determinata situazione. La cosa che non va bene è quando l’ansia paralizza». Questo in molti casi può significare non riuscire ad apprendere con serenità, magari studiare giorno e notte e poi non presentarsi all’esame. Ma da dove nasce questa ansia? È solo timore di essere giudicati o è qualcosa di più profondo? «Spesso il mancato superamento di un esame viene letto come qualcosa che riguarda l’identità e la persona a tutto tondo», risponde Peripoli. «Se un esame diventa il banco di prova non tanto della conoscenza di una materia, ma del valore complessivo della persona e si ritiene che possa, condizionare il successo o l’insuccesso che si avrà infuturo, come si fa a non paralizzarsi? Legittimiamo invece l’ansia, e proviamo a capire quali alternative possono esserci. Quello che si fa all’interno del gruppo è proprio questo, cercare di riflettere e di capire che cosa c’è veramente in ballo per ognuno di noi». «I sintomi ansiosi e depressivi – aggiunge Coco – hanno caratterizzato la popolazione studentesca che in questi anni si è rivolta a noi. Oggi però ritroviamo delle personalità più fragili, più insicure rispetto alla propria identità. È importante invece definirla, per affrontare il futuro. Questo vuol dire conoscersi, avere la capacità della narrazione della propria storia e riflettere sulle proprie scelte e le proprie emozioni legate ad un fallimento. L’università – prosegue – resta forse il primo banco di prova del confronto fuori dal contesto familiare. Quando si arriva al primo fallimento di un esame si pensa di aver sbagliato la scelta universitaria. Abbiamo un alto numero di richieste proprio nella fascia di coloro che frequentano la triennale. Come se questo risultato negativo interrompesse la capacità di riflettere sulle motivazioni che hanno portato a quella scelta». Quelli universitari sono anni di formazione, di acquisizione della propria autonomia, della creazione del proprio carattere. E questo lo si costruisce con il confronto con le altre persone. Questo è il nodo, secondo Coco e Peripoli. «Rispetto a quello che ci riportano i ragazzi e le ragazze che incontriamo rileviamo che il confronto con l’altro spesso viene vissuto come una minaccia. Questo ci ha messe in allerta. Perché questo disagio può manifestarsi non solo lungo il percorso di studi, ma anche nei rapporti sociali e lavorativi futuri». Da qui l’idea di attivare, già da diversi anni, proposte di gruppo, all’interno dei quali confrontarsi su questi stati emotivi forti, paralizzanti in alcuni casi, come ci spiega Peripoli. «Il gruppo è formato da una decina di persone, che si mettono in gioco in una dimensione protetta. Essere in gruppo aiuta a mettere al centro situazioni vissute e permette di avere altri punti di vista. Organizziamo dei momenti in cui cerchiamo di rilassarci, soprattutto attraverso la respirazione e fantasie guidate, e in cui cerchiamo di far sperimentare che è possibile parlare di ciò che ci mette in difficoltà e che “non essere perfetti” non necessariamente vuol dire “essere sbagliati”». «Quello che possiamo fare e che stiamo facendo è agire sul contesto, sulle reti sociali, per promuovere il benessere. Che non significa credere che non ci siano delle difficoltà», sottolinea Carolina Coco. «Si agisce quindi sia sull’individuo, per allenare la sua capacità di ripensare alla propria storia, per trovare una continuità rispetto ai propri percorsi di crescita, e di riflettere sulle situazioni che vive, sia sui contesti. L’obiettivo è non solo quello di dare una risposta nel momento in cui la situazione degenera e la sintomatologia emerge, ma cercare di prevenire questo malessere offrendo delle situazioni di gruppo in cui studenti e studentesse possono sperimentarsi nel confronto con gli altri».