Salvatore Abbruzzese ©UniTrento ph. Marco Parisi

Vita universitaria

La domanda che non muore

Nella lectio del sociologo Salvatore Abbruzzese il destino delle religioni e sul ritorno delle grandi questioni esistenziali

22 maggio 2025
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Swami Agosta
Studentessa collaboratrice Ufficio Stampa e Relazioni esterne

Che l’essere umano continui a porsi grandi domande sul senso della vita non sorprende. Più inatteso, forse, è che in una società iper stimolata come la nostra, le risposte possano ancora arrivare dalla religione. Lontana dai clamori del presente e spesso percepita come superata, la dimensione religiosa può invece continuare a offrire nuove chiavi di lettura per il nostro presente. Di questo apparente paradosso ha parlato Salvatore Abbruzzese, docente del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale, in una lectio dal titolo “La morte senile delle religioni e la continua rinascita della domanda”, tenuta in occasione del suo congedo dall’attività universitaria celebrato insieme a docenti, studenti e studentesse.

Professore, nella sua lectio ha parlato di una “morte senile” delle religioni. Cosa intende con questa espressione?

«Il concetto di “morte senile” è stato introdotto da Alexis de Tocqueville nel 1856 per descrivere il rapporto turbolento tra la religione cristiana e le religioni pagane. Tocqueville osservava che una religione può essere sconfitta o sostituita solo da un’altra religione, come avvenne nel caso dell’affermazione del cristianesimo per l’appunto. Ma aggiungeva anche che, tuttavia, le religioni muoiono perché si esauriscono, cessano di affascinare, non convincono più e per questo vengono abbandonate.
Ho ripreso questo concetto perché descrive bene la specificità del caso italiano, diverso da altri contesti occidentali. La Chiesa cattolica in Italia non ha mai subito veri attacchi o persecuzioni. Al contrario, dopo la Seconda guerra mondiale ha goduto di una posizione privilegiata: concordato, insegnamento della religione nelle scuole, presenza negli ospedali, nelle cooperative, nella stampa. Eppure, nonostante questo, il cattolicesimo ha conosciuto un forte ma soprattutto rapido declino. Basti pensare ai referendum su divorzio e aborto, promossi dal mondo cattolico e conclusi con una netta sconfitta di quest’ultimo. A ciò si aggiungono la crisi delle vocazioni, la chiusura dei seminari, il calo della partecipazione e, in particolare, il declino dei matrimoni religiosi a favore delle convivenze. Tutti segnali che giustificano l’uso dell’espressione “morte senile” della religione».

E invece cos’è questa “domanda di senso” che oggi sembra riemergere con forza?

«La domanda di senso, che si esprime con interrogativi quali: “Che significato ha la vita?” o “Che senso può avere se poi c’è la morte?”, centrale nell’esperienza umana viene costantemente annichilita, ridicolizzata e messa ai margini. Eppure, una tale domanda non si è mai davvero spenta. La ritroviamo nelle nuove forme di spiritualità, dentro e fuori la Chiesa, o nel ritorno a visioni del mondo come il buddismo. Non si tratta di mode passeggere, ma di risposte a un bisogno profondo in quanto le persone cercano sempre di dare significato alla propria esperienza. Per questo tutto ciò che riguarda il sacro, le devozioni, la spiritualità merita attenzione».

Come si immagina il futuro delle religioni? Quali saranno, secondo lei, le sfide più grandi che dovranno affrontare nei prossimi anni?

«La sfida più grande è sicuramente quella di confrontarsi con l’ideologia dominante della società contemporanea: l’idea che tutto si possa cambiare. Viviamo in un mondo in cui tutto sembra fluido e modificabile: mestiere, città, identità, relazioni, perfino il genere. La libertà di poter modificare tutto è diventata il perno su cui si definisce l’intera società. Le religioni, invece, ricordano che non tutto è negoziabile. Parlano di limiti strutturali della condizione umana quali la malattia, il dolore, la morte. Elementi che la società di oggi preferisce rimuovere perché sono dirompenti e laceranti. Ma proprio da lì nasce la domanda religiosa: da quella frattura originaria tra l’esperienza del male e il bisogno di senso. La religione ci dice che anche la nostra rabbia di fronte al dolore ha un significato, che non è solo una reazione emotiva. È da lì che comincia tutto. Il problema è che la società dei consumi, con la sua promessa di distrazione continua, ci porta altrove. Ci dice: “Non pensarci. Non serve a nulla in quanto non ci sono risposte”.
Basta entrare in un centro commerciale: anche se non abbiamo bisogno di nulla, ci sentiamo meglio. Tutto è pensato per anestetizzare la frattura, dalle luci ai colori sino alle vetrine».

Questa lectio è anche il suo saluto all’università. Guardando indietro, quali sono stati i momenti più significativi del suo percorso di insegnamento?

«Direi che il primo elemento importante è stata la scoperta costante della propria inadeguatezza. Ogni anno, ogni corso, ogni confronto con i colleghi, mi faceva capire che c’era sempre qualcosa che non avevo studiato abbastanza o che non avevo compreso fino in fondo. È una presa di coscienza realistica e sana, secondo me, perché ti costringe a migliorare. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata la qualità di chi studia all’Università di Trento: persone motivate appassionate, pronte a fare sacrifici per raggiungere i propri obiettivi. Nonostante le difficoltà del sistema, ho visto giovani leggere, capire, entrare nei testi con profondità. In quei momenti, si intravede la bellezza della vita che cresce e il ruolo di noi docenti è quello di custodirla e rilanciarla».

C’è un messaggio che vorrebbe lasciare alle persone che ha incontrato e con le quali ha condiviso questo percorso?

«Ai miei colleghi direi prima di tutto di difendere il proprio lavoro e di riconoscersi in quello che fanno. In un mondo in cui spesso vince la razionalità strumentale e l’efficienza prevale sull’anima, è fondamentale recuperare il senso del proprio mestiere.
Agli studenti, invece, dico sempre che loro sono la vera avanguardia alternativa. Viviamo in una società in cui studiare non è premiato ma anzi è giudicato come una scelta fuori tempo. E invece, per me, è un atto profondamente controcorrente e di sincera opposizione al primato del realismo strumentale. Vorrei che gli studenti non si sentissero soli in questo, vorrei che capissero di essere dalla parte giusta: quella di un’umanità che ha riflettuto su sé stessa, e lo fa ancora».